Riflessione scolastica

Periodo difficile questo che precede la chiusura dell’anno scolastico: difficile perché è tempo, in tutti i sensi, di valutazioni finali, è il tempo nel quale si capisce cosa si è riuscito, o meno, insegnare ai propri alunni. Attacco subito con un mea culpa: ebbene si, credo mai come quest’anno, la percentuale di insuccesso formativo,  i n s u c c e s s o, sì, sia vicina al 100%. In altre parole: non sono riuscito ad insegnare niente a nessuno! O quasi. Non c’è da stare sereni, proprio per niente. Ovvio interrogarsi sulle cause: ebbene, credo proprio di avere sbagliato tutto! Lasciatemi dire come. Quest’anno, per la prima volta da quando insegno elettronica, non ho avuto quinte. E già, con l’ultima riforma nell’indirizzo “Informatica” dei tecnici, elettronica si ferma al quarto anno. Magnifico, dico io ai ragazzi, vuol dire che finalmente saremo liberi di fare qualcosa di veramente significativo perché non avremo da prepararci alle classiche domande di esame! Di conseguenza centro tutta la mia attività su un qualcosa che a scuola è rivoluzionario, metto in mano ai ragazzi “Arduino”, ovvero metto nelle loro mani il cuore pulsante dell’intero movimento dei makers a livello mondiale! Chissà cosa verrà fuori, pensavo. E infatti non è venuto fuori praticamente niente. Dopo qualche iniziale settimana, esaurito l’effetto novità, le dinamiche sono state quelle purtroppo ormai usuali: resistenza passiva, disinteresse, incuria, sciatteria. Il risultato è quello che ho già detto. La considerazione è che, evidentemente, ho sbagliato ancora una volta a prevedere la reazione dei ragazzi; ho pensato a quello che sarebbe successo a me, alla curiosità che la proposta avrebbe generato, all’interesse e alla motivazione conseguente.

Ma credo che su questo tema della demotivazione altri, molto più quotati di me, hanno già speso le loro riflessioni. Mi dirigo quindi ad una seconda riflessione sul tema, ma anche questa volta devo brevemente raccontare da cosa scaturisca. Ebbene, tempo di interrogazioni finali, incastro me e loro, loro, ovvero i ragazzi delle varie classi, intendo, con uno stringente calendario di interrogazioni programmate. Per ogni classe i vari nomi giorno per giorno, gli argomenti sui quali avrei centrato la verifica, gli eventuali materiali ad integrazione degli appunti e del libro di testo. Tutto ben comunicato e organizzato su “Edmodo”, piattaforma che usiamo un po’ tutti per comunicare con i ragazzi al di là della presenza in classe. Risultato: quasi tutti si fanno trovare impreparati! E qua il discorso si fa assai impegnativo: che vuol dire “impreparati”? Ci sono quelli che, nonostante fossero perfettamente a conoscenza della scadenza, hanno ritenuto che non fosse il caso di preparare il colloquio. E infatti te lo dicono subito: “no professore, sono impreparato . . .” Vabbé si fa presto a mettere un due e andare avanti. Poi ci sono quelli che accettano il colloquio esaurendolo dopo le prime tre parole (non scherzo) dell’argomento ” a piacere”. Vabbé, hanno fatto lo sforzo di alzarsi dal posto, si beccano un tre e avanti un altro. Loro vanno via non contenti ma nemmeno dispiaciuti. Il prof sottoscritto rimane assai pensoso e si fa domande del genere: “era o non era consapevole di non sapere nulla?”; “come mai la scelta di un argomento del quale non si riesce a parlare?”; “quale il livello di consapevolezza circa i propri saperi?”. Ma le categorie di impreparazione non sono ancora finite: ci sono quelli che vengono a ripetere a memoria un testo che somiglia ad un temino delle elementari (giuro, non ho nulla contro le elementari, anzi il contrario) ma che non hanno alcuna capacità di ragionare su uno schema, un diagramma, delle caratteristiche tecniche, delle espressioni matematiche. Li classifichiamo come “immaturi”, prendono un bel quattro e vanno al posto un po’ perplessi: “ho parlato e ho ripetuto”, pensano loro . . . come mai il quattro? E sempre il sottoscritto docente rimane lì a farsi, tra sé e sé, ulteriori domande: ” ma dove l’hanno presa questa cosa del temino da bravo bambino quando nemmeno una volta in classe abbiamo fatto qualcosa del genere? Perché, attenti come sono a “cosa vuole sapere il professore”, adottano poi uno schema comportamentale (non oso chiamarlo cognitivo) evidentemente derivato da altre discipline e da altri, precedenti, anni scolastici? A queste domande qualche risposta riesco a balbettarla: evidentemente hanno acquisito, nei vari anni scolastici, la convinzione che a loro sia richiesto di ripetere a memoria e senza senso un qualche testo che gli è stato proposto. La memoria riescono ad usarla, almeno quelli che un po’ di sforzo sono disposti a metterci, e così la utilizzano al posto della sistematizzazione, della modellazione, del pensiero critico, della capacità di applicare le conoscenze alla soluzione di problemi. “Fa proprio schifo la scuola, pensa sempre lo stesso sottoscritto prof, se è riuscita a fare tutto questo danno!” Ma ancora non abbiamo finito con le categorie di impreparazione, arriviamo a quella che proprio stamattina mi ha provocato una violenta reazione di indignazione, sì, proprio così, indignazione. Stiamo parlando della categoria di studenti che magari sembrano anche bravini, ti illudi, quando li guardi seduti ai loro posti: prendono appunti, in qualche modo seguono ( almeno ti fanno capire questo), sembrano ragionevoli e ordinati. In qualche modo il povero prof  si ritrova a nutrire una qualche aspettativa nei loro confronti, almeno loro una bella interrogazione me la faranno sperimentare! Atrocemente sbagliato . . . quello che è successo stamattina mi ha fatto pensare ad un novello medioevo, alla superstizione, alla mancanza totale di raziocinio. Un ragazzo cui avevo chiesto di calcolare la corrente in un semplice circuito comincia a scrivere delle cose alla lavagna: ebbene mi accorgo che al posto di seguire i passaggi logici e matematici del caso sta arrancando ancora una volta facendo ricorso alla memoria. Il risultato è che la stessa grandezza elettrica scritta in due righe successive cambia forma e sostanza! Richiesto del perché e invitato a fare l’evidente correzione il ragazzo non riesce a fornire alcuna spiegazione e a modificare di una virgola il suo operato.. Questo episodio, ripetuto tante volte, e tanti altri che qui non racconto sennò esaurisco il blog, mi fanno chiaramente capire quanto grande e grave sia lo scollamento tra il segno e il suo significato. Ciò accade per i simboli, per le lettere, per le espressioni matematiche e non. Non è solo questione di “formule” matematiche: lo stesso avviene con un testo verbale o multimediale che sia, lo stesso avviene con un grafico e una schematizzazione. Ciò che viene scritto e riportato dai ragazzi per i medesimi non ha alcun significato, si tratta di un qualcosa che viene portato fuori in qualche modo che esclude certamente il ragionamento, la consequenzialità, lo sviluppo di un pensiero, il seguire un processo.  Il risultato è che vengono fuori delle cose senza senso e che nessuno in classe sia in condizioni di accorgersi che sono senza senso! Il paradigma “soggetto-predicato-complemento” è del tutto disatteso: al posto di frasi, anche molto semplici, vengo fuori solo singole parole chiave. La distinzione di causa ed effetto è totalmente assente, del fenomeno osservato, del sistema studiato non si distingue il sopra dal sotto, l’ingresso dall’uscita. Devo dire che questa cosa mi ha molto spaventato, mi sembra segno e sintomo di una rinuncia a pensare, a capire, a imparare. Mi sembra che lo spirito dei “lumi”, della razionalità, che pure riteniamo fondante di tutto il nostro pensiero contemporaneo e della maggior parte delle nostre competenze sia andato totalmente perduto. Ammetto di essere impreparato io, questa volta, ad affrontare questa emergenza. E come si fa? Tutto l’anno non ho fatto altro che mostrare loro esempi di ragionamento, allenandoli a “tradurre” una espressione matematica in italiano o a tradurre una affermazione in espressione matematica. Tutto l’anno ho proposto loro schemi, diagrammi e modelli mostrando come già la semplice loro “lettura” sia fondamentale atto conoscitivo. Devo ammetterlo: mi sembrano pazzi (attenzione, sto parlando di individui dai 16 ai venti anni, non di bambini) quando vedo indifferenza di fronte a tutta questa evidenza. Mi sembra che siano pronti a credere e ad agire in base a tutto quell’insieme di superstizioni e di credenze di cui nei recenti passati secoli ci siamo, a fatica, liberati. Se lo stesso gatto ( o corrente elettrica nel caso dell’alunno di cui sopra) in un rigo è bianco e nel successivo è nero significa che il pensiero è stato abolito. Cosa è successo a queste generazioni? E’ effetto del mercato? E’ effetto del ventennio berlusconiano nella cultura del quale sono cresciuti? E’ effetto della disponibilità immediata in rete di così tante informazioni che non sanno che farsene? E che possiamo fare, come docenti, per correggere la rotta?

 

Selezione foto 2014

Ho composto e stampato su Blurb una selezione di fotografie realizzate nel corso del 2014. IL libro è sfogliabile elettronicamente qui di seguito:

Esporre il lavoro

Ho pubblicato un articolo su Humansofsicily , ne riporto qui uno stralcio e il link all’articolo completo.

Abbiamo a lungo dibattuto tra noi di cosa dovesse esser parte del tema “humans” e di come svilupparlo. Di come realizzare le serie di foto, se privilegiare la scoperta oppure se lavorare e perfezionare a lungo un tema. Abbiamo riflettuto sulla natura e qualità dei risultati sino ad ora raggiunti, su quanto ci soddisfino o non ci soddisfino. Abbiamo riflettuto sul possibile dilettantismo che rischia di emergere dalle serie pubblicate e sul significato della parola “autorialità” che citiamo nel nostro manifesto. La lettura che, in questo periodo, sto facendo del piccolo, ma sostanzioso, “Cos’è l’arte?” di Joseph Beuys (qui la recensione) mi consente di estrarre qualche passaggio che mi sembra significativo.

Charlie Haden – Jim Hall

Magnifico ascolto stasera!

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Re-branding e spirito del 68

Leggo oggi ad opera di Christian Salmon il contributo forse più interessante tra i tanti spesi per cercare di interpretare il significato e le conseguenze dell’attentato di Parigi dello scorso 11 gennaio. Ne riporto qui alcuni passaggi.

«Ci è stata messa sulle spalle una carica simbolica che va un po’ oltre ciò che siamo», ha dichiarato Luz, uno dei disegnatori superstiti della redazione di Charlie Hebdo. «Io sono tra coloro che si sentono a disagio. In definitiva, la carica simbolica attuale è tutto ciò contro cui Charlie ha sempre lavorato: distruggere i simboli, far crollare i tabù, smascherare i fantasmi. Con la differenza che oggi il simbolo
siamo noi.
L’irriverenza si è trasformata in oggetto di adorazione, l’impertinenza in obbligo e persino in compito scolastico. Il disegno sacrilego è stato sacralizzato e la guerra santa barbarizzata. Informazione e insegnamento sono stati mobilitati, ironia e sarcasmo sono diventati una materia obbligatoria. L’intoccabile è emerso ovunque. I militanti della matita hanno preso ad assomigliare a dei pellegrini in cammino, con i loro bastoni: dei penitenti del ridere. La Republique, rispettosa, ha brandito l’ostensorio del ridere davanti alle folle in processione…
… la messa anti-terroristica si presta ad essere letta come un’Eucaristia patriottica. Consuma i simboli della fede repubblicana e opera una vera e propria transustanziazione: “Questo è il mio corpo” “Io sono Charlie”. Il corpo di Charlie. Il marketing non fa che parafrasare il testo del Testamento, o profanarlo.
… lo spirito dell’11 gennaio ha preso il posto dello spirito del Maggio. Le matite hanno preso il posto dei sanpietrini (quelli lanciati nelle manifestazioni del 1968, ndr), e la strada si è svuotata per accogliere un manipolo di capi di Stato, che comprendeva una ragionevole percentuale di censori e dittatori. Si è assistito al tempo stesso alla rivolta e al ritorno del bastone, a “Io sono Charlie” e al caos, al Maggio ‘68 e al giugno ‘68 (quando De Gaulle vinse le elezioni, ndr). Lo spirito di rivolta si è affidato all’ordine repubblicano, una rivolta antiautoritaria ha assunto i tratti di una richiesta di autorità, l’insorto è diventato un venditore. L’hashtag virale si è imposto su migliaia di slogan. Vi sono stati contemporaneamente rivoluzione e restaurazione, ordine e insurrezione…

Declinismo

C’è uno spettro che si aggira nel nostro Paese, e si chiama declinismo. I nostri ragazzi sono i primi imputati. Si stava meglio prima. Ne siamo sicuri?

 

Leggi per intero l’interessante articolo di Maurizio Muraglia.

Il buio che stiamo coltivando

Serata tra amici, ieri, siamo in tre che condividono fascia di età, sensibilità politica e culturale, lavoro. Docenti di tre diverse scuole secondarie, diverse per indirizzo e provenienza sociale degli alunni, ci ritroviamo volentieri a parlare di didattica, di metodologia di cosa tentiamo di mettere in atto ognuno con i propri studenti. Devo ammettere che imparo e capisco più in queste cene che in un corso di formazione.
Dunque anche ieri sera discorsi importanti: riflessioni su come un contenuto possa trasformarsi in una conoscenza. Ad un certo punto però si affaccia un pensiero triste , si fa strada la constatazione che la grande maggioranza degli studenti, soprattutto nell’istruzione tecnica e professionale (si faccia attenzione, si tratta in pratica della maggioranza assoluta degli studenti italiani) versa in una demotivazione pressocchè totale, in una mancanza di curiosità e di iniziativa preoccupante. Una mancanza assoluta di disponibilità allo studio e all’apprendimento che accomuna gli studenti sia dei docenti bravi che di quelli scarsi, sia dei docenti conservatori che di quelli innovatori. Che faranno, questi ragazzi, tra una decina d’anni, quando toccherà a loro lavorare e mantenere una famiglia, come faranno se già il lavoro scarseggia e qualsiasi forma di competenza è praticamente assente? L’idea di una imminente emergenza sociale diventa palpabile.

Stamattina magnifica giornata di sole, sono libero, prendo bicicletta e macchina fotografica e faccio un giro. In via Maqueda, complice il passaggio di due motociclisti della polizia a tutta velocità e a sirene spiegate in piena zona pedonale ci ritroviamo a parlare con dei negozianti della zona del fatto che la zona pedonale viene abusata da alcune categorie istituzionali (forze dell’ordine e scorte armate ai magistrati), delle crescenti difficoltà economiche, della presenza sempre maggiore, una presenza ormai vissuta come invasione, di comunità di immigrati dalla Cina e dal Bangladesh. In effetti ormai la cosa si tocca con mano: molte zone tradizionalmente occupate dai negozi storici della città hanno cambiato volto: un lungo tratto di corso Vittorio, ad esempio, è ormai occupato solo da negozi che vendono bigiotteria. Come fanno a campare, domando, e qui si scatenano vari ammiccamenti, riferimenti e allusioni a “sistemi diversi” dalla pura e semplice vendita. Capisco che l’argomento smuove pulsioni profonde quando uno mi dice che se continua così “finirà a rivoluzione”! Che ormai è giunto il momento di sfasciare tutto per poter ricominciare in qualche modo nuovo. Quale, ovviamente, non si sa….

Apro il giornale e leggo il bell’articolo di Saviano “L’odio per il bene” nel quale affronta il tema delle scomposte reazini verificatesi per la liberazione delle due ragazze rapite in Siria. Anche nelle parole di Saviano serpeggia amarezza e scoraggiamento:

…. Tutto serve a sporcare la vicenda di Vanessa e Greta….
Erano in Siria per portare impegno. E qui arrivano gli insulti che più di tutti mi colpiscono …. : «Ma se volevano fare del bene, non potevano farlo in Italia?». …
Tutti Charlie Hebdo, ma a casa propria ché se poi vi capita qualcosa ve la siete cercata.
Un Paese che non riesce a mostrare solidarietà verso due ragazze sequestrate rischia di essere un Paese fallito, che fa vincere il livore, la rabbia, l’idiozia…
La cooperazione internazionale è la migliore esportazione possibile. Il nostro Paese sta dando prova di non capire …. Mi vergogno delle reazioni di molti miei connazionali, delle loro parole, del loro livore, del loro odio. Se un Paese non è capace di stare accanto a due giovani donne volontarie, che hanno passato in condizioni di sequestro quasi sei mesi della loro vita, allora merita il buio in cui sta vivendo.

Soluzione delle reti elettriche in continua

copertinacontitoloHo da pochissimo completato la stesura di un breve testo concepito per aiutare i miei alunni a comprendere e ad eseguire l’analisi delle reti elettriche in corrente continua. Il testo e un form di segnalazione di eventuali problemi o per inviare dei commenti è disponibile alla pagina http://www.columba.it/e-book-soluzione-delle-reti-elettriche-in-continua/ ed è scaricabile anche direttamente da qui: [sdm_download id=”2285″ fancy=”0″]

Il libro è in formato epub3 e contiene degli esercizi interattivi pertanto è idoneo alla lettura su iPad, tablet e smartphone che utilizzano questa tecnologia. In alternativa il libro è direttamente consultabile online qui  (consigliabile in tal caso il browser Chrome con l’estensione Readium ).

Vagando in una luminosa notte

Ripropongo oggi la mostra presso Asterisco, sto per andare alla inaugurazione, ho bisogno di raccogliere qualche pensiero, spero sensato, spero intelligente.
Non è mia intenzione, in questa sede, parlare delle fotografie: ai posteri l’ardua sentenza, come si suol dire, piuttosto mi piacerebbe parlare del percorso che ha portato alla realizzazione delle stesse. La narrazione di questo percorso è importante. Nel caso di fotografie e di fotografi si finisce quasi sempre con lo scoprire che il percorso di vita e quello fotografico sono tra loro strettamente legati: difficilmente potrebbe esistere l’uno senza l’altro.
Il percorso che mi ha portato a queste foto è durato oltre due anni, un percorso che mi ha portato in giro per tutta la sicilia (sono esclusivamente siciliani gli alberi qui rappresentati) e che mi ha creato molte veglie notturne da dedicare alla postproduzione. Ma in realtà, come tutte le occasioni della vita nelle quali matura un momento di così palese esposizione pubblica, si manifesta il risultato di un percorso durato più o meno una intera vita.
Dal punto di vista fotografico io nasco, se si fa eccezione delle foto familiari fatte con la “Istamatic”, durante il periodo in cui frequentavo l’università: caratteristica di quel periodo la semplicità dei mezz:i il bianco e nero e le infinite ore passate di notte in camera oscura. Un primo grosso salto lo faccio quando entro a far parte di Laboratorio Immagine, una delle migliaia di cooperative giovanile nate agli inizi degli anni ottanta, dedicandomi a quel punto esclusivamente alle diapositive. Colore quindi (e che colori la vecchia Ektachrome), modalità “uno scatto e via” perchè con le dia non si può poi intervenire in nessun modo: esposizione e composizione sono tutte e solo decise al momento dello scatto. Una formidabile palestra che mi ha portato a contatto con tanti temi classici di quegli anni: la cultura materiale e popolare, l’ambiente, il territorio, l’ecologia, la società, la gente.
Finito quel periodo la mia attenzione creativa si sposta prima verso il video, poi verso la realizzazione dei cdrom interattivi per approdare infine ai primi siti web in html. La fotografia rimane sullo sfondo ma sostanzialmente non fotografo più, a parte le classiche occasioni familiari.
A “risvegliare il neurone fotografico” interviene la disponibilità delle tecnologie digitali a costi accessibili, il tutto condito dalle possibilità di Flickr e delle rete tutta. Credo che il mio primo anno di partecipazione a Flickr mi abbia fatto crescere forse più di tutti gli anni precedenti, vado sperimentando tecniche e soggetti, pubblico le foto online e aspetto i commenti positivi, comincio a pensare ad un tipo di fotografia che sia veramente “mia”. Dopo un periodo piuttosto forsennato sento il bisogno di fermarmi un attimo per rispondere alla domanda: ma io, che cosa fotografo? E mi metto a guardare, con occhi il più possibile distaccati, il mio archivio digitale ormai arricchitosi di oltre diecimila immagini. Scopro i miei soggetti preferiti e tra questi forse “il”preferito: gli alberi. Sul perché di questa preferenza il discorso sarebbe adesso troppo lungo ma giusto per avere una idea si pensi ad uno spirito ecologico impregnato di un certo animismo immanentista. Decido quindi di cominciare a lavorare esplicitamente e deliberatamente sugli alberi, di farne oggetto di una mia personale ricerca da portare avanti consapevomente.
A questo si aggiunge, nello stesso periodo, una certa stanchezza rispetto al tipo di fotografia dilagante. In realtà dilaga di tutto, di tutti i generi fotografici, con uno spiccato orientamento verso la ricerca dell’effetto “wow”. Sono stanco di quanto vedo in giro, voglio distaccarmene, ambisco a qualcosa di più personale, comincio a coltivare e a far crescere l’idea di una fotografia “poco fotografica”, almeno nel senso classico del termine, una fotografia lontana dalla classiche forme della retorica del mezzo. Comincio così a considerare l’atto fotografico come solamente il momento di inizio di un processo di costruzione dell’immagine: non fotografo più “le cose”, i luoghi, gli oggetti. Piuttosto, fotografando, creo materiali grezzi che mi serviranno a costruire delle immagini non necessariamente coincidenti a qualcosa di reale. È nella camera oscura, ormai diventata camera chiara e digitale, è nelle lavorazioni che vengono dopo gli scatti che si insegue l’immagine che si vuole generare. Dunque “poco fotografico” non sta ad indicare una fotografia che insegue la pittura o qualche altra forma di arte o di comunicazione visiva: indica invece un processo che partendo dalla fotografia sfrutta le possibilità messeci a disposizione dalle tecnologie digitali.
Le fotografie della mostra sono il risultato di questo processo, spero che vi piaccia!

Mois de la Photo

Di ritorno da Parigi, ho qualche ora di attesa a Fiumicino, provo a riordinare le idee di un weekend interamente dedicato alla fotografia.
IMG_1561.JPGCominciamo da Paris Photo, 169 gallerie da 35 paesi rappresentano i migliori fotografi “fine art” del mondo. Fine art sta per fotografia artistica, non (necessariamente) legata al mondo dell’informazione e della documentazione. Si tratta di una vera e propria fiera con tanto di marea umana che pascola senza molto capire e riuscire ad apprezzare. Ed in effetti apprezzare è difficile se dappertutto ricevi spintoni e devi far fatica per guardare un’opera senza una qualsiasi testa in mezzo. Tant’è, non so se i galleristi siano tanto contenti di una tale affluenza, i loro clienti sono persone di altra natura, diciamo meno “turistica”.
Per un bel pezzo mi sono quindo sentito piuttosto a disagio non riuscendo a godermi nulla di quanto esposto. Almeno sino a quando non ho deciso che dovevo essere molto più spregiudicato e politicamente scorretto, ho capito che dovevo assecondare il mio momentaneo arbitrio, trascurando quanto (in quel momento) non poteva interessarmi (per favore, basta con Irvine Penn e tanta, anche se importantissima,fotografia storica), ho capito che dovevo essere disincantato e affidarmi brutalmente alla sensazione immediata. E ho svoltato, per così dire, scoprendo che mi piacevano più di tutti i fotografi contemporanei giapponesi e coreani con opere vibranti dalla sensibilità estrema ed estremamente differente da quella occidentale. Ho preso appunto per ulteriori approfondimenti, almeno qualche libro vorrei riuscire a comprarlo.

Nella stessa giornata mi sono spostato dalla zona “commerciale” a quella culturale del Mois de la Photo e sono andato a Jeu de Paume, per la mostra di Garry Winogrand. Bella e interessante mostra, molto ben curata, senza dubbio, ma si tratta di un genere fotografico ormai molto noto il cui interesse probabilmente rimane fondamentalmente storico.

IMG_1564.JPGIeri, sabato, sono andato alla Mep, Maison Europeenne de la Photographie, a vedere principalmente la mostra di Tim Parchicov, “Suspense” e “Faux Horizons” di Alberto Garcia Alix. La prima è allestita in una sala buia dalle pareti scure. Le immagini sono stampate si supporto trasparente e retroilluminate. Suggestiva ma tuttosommato “perdibile”.
Falsi Orizzonti, dello spagnolo, è invece assai interessante anche se inevitabilmente risente di una certa dolorosità cattolica e di una sorta di machismo futurista. L’ho trovata molto stimolante.

Nel pomeriggio al museo Carnavalet per la raccolta di Michael Kenna su Parigi. Qui l’incanto è purissimo e assoluto, atmosfere delicate e sospese ma non desolate e rarefatte, una capacità di trattare anche temi classicissimi come i ponti sulla Senna in chiave sempre intrigante e mai banale, mai lasciandosi tentare dal “meraviglioso” o dal “bel paesaggio”. Beh, sulle qualità della fotografia di Kenna non ho certo bisogno di dilungarmi. Unico cruccio l’atmosfera rumorosa e poco ripettosa, cafonismo da gruppo turistico, cosa ben diversa dalla prima esposizione di Kenna che avevo visto qualche anno fa alla Biblioteque Nationale in una atmosfera praticamente mistica di silenzioso raccoglimento. Infine a Saint Germain, le gallerie più numerose dei panifici, che ospita per lo più autori della sezione “Off”.

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Ritorno alla base col velib (la bici comunale in affitto) con tanto di passeggiata su un lungo senna al crepuscolo 🙂