Riflessione scolastica

Periodo difficile questo che precede la chiusura dell’anno scolastico: difficile perché è tempo, in tutti i sensi, di valutazioni finali, è il tempo nel quale si capisce cosa si è riuscito, o meno, insegnare ai propri alunni. Attacco subito con un mea culpa: ebbene si, credo mai come quest’anno, la percentuale di insuccesso formativo,  i n s u c c e s s o, sì, sia vicina al 100%. In altre parole: non sono riuscito ad insegnare niente a nessuno! O quasi. Non c’è da stare sereni, proprio per niente. Ovvio interrogarsi sulle cause: ebbene, credo proprio di avere sbagliato tutto! Lasciatemi dire come. Quest’anno, per la prima volta da quando insegno elettronica, non ho avuto quinte. E già, con l’ultima riforma nell’indirizzo “Informatica” dei tecnici, elettronica si ferma al quarto anno. Magnifico, dico io ai ragazzi, vuol dire che finalmente saremo liberi di fare qualcosa di veramente significativo perché non avremo da prepararci alle classiche domande di esame! Di conseguenza centro tutta la mia attività su un qualcosa che a scuola è rivoluzionario, metto in mano ai ragazzi “Arduino”, ovvero metto nelle loro mani il cuore pulsante dell’intero movimento dei makers a livello mondiale! Chissà cosa verrà fuori, pensavo. E infatti non è venuto fuori praticamente niente. Dopo qualche iniziale settimana, esaurito l’effetto novità, le dinamiche sono state quelle purtroppo ormai usuali: resistenza passiva, disinteresse, incuria, sciatteria. Il risultato è quello che ho già detto. La considerazione è che, evidentemente, ho sbagliato ancora una volta a prevedere la reazione dei ragazzi; ho pensato a quello che sarebbe successo a me, alla curiosità che la proposta avrebbe generato, all’interesse e alla motivazione conseguente.

Ma credo che su questo tema della demotivazione altri, molto più quotati di me, hanno già speso le loro riflessioni. Mi dirigo quindi ad una seconda riflessione sul tema, ma anche questa volta devo brevemente raccontare da cosa scaturisca. Ebbene, tempo di interrogazioni finali, incastro me e loro, loro, ovvero i ragazzi delle varie classi, intendo, con uno stringente calendario di interrogazioni programmate. Per ogni classe i vari nomi giorno per giorno, gli argomenti sui quali avrei centrato la verifica, gli eventuali materiali ad integrazione degli appunti e del libro di testo. Tutto ben comunicato e organizzato su “Edmodo”, piattaforma che usiamo un po’ tutti per comunicare con i ragazzi al di là della presenza in classe. Risultato: quasi tutti si fanno trovare impreparati! E qua il discorso si fa assai impegnativo: che vuol dire “impreparati”? Ci sono quelli che, nonostante fossero perfettamente a conoscenza della scadenza, hanno ritenuto che non fosse il caso di preparare il colloquio. E infatti te lo dicono subito: “no professore, sono impreparato . . .” Vabbé si fa presto a mettere un due e andare avanti. Poi ci sono quelli che accettano il colloquio esaurendolo dopo le prime tre parole (non scherzo) dell’argomento ” a piacere”. Vabbé, hanno fatto lo sforzo di alzarsi dal posto, si beccano un tre e avanti un altro. Loro vanno via non contenti ma nemmeno dispiaciuti. Il prof sottoscritto rimane assai pensoso e si fa domande del genere: “era o non era consapevole di non sapere nulla?”; “come mai la scelta di un argomento del quale non si riesce a parlare?”; “quale il livello di consapevolezza circa i propri saperi?”. Ma le categorie di impreparazione non sono ancora finite: ci sono quelli che vengono a ripetere a memoria un testo che somiglia ad un temino delle elementari (giuro, non ho nulla contro le elementari, anzi il contrario) ma che non hanno alcuna capacità di ragionare su uno schema, un diagramma, delle caratteristiche tecniche, delle espressioni matematiche. Li classifichiamo come “immaturi”, prendono un bel quattro e vanno al posto un po’ perplessi: “ho parlato e ho ripetuto”, pensano loro . . . come mai il quattro? E sempre il sottoscritto docente rimane lì a farsi, tra sé e sé, ulteriori domande: ” ma dove l’hanno presa questa cosa del temino da bravo bambino quando nemmeno una volta in classe abbiamo fatto qualcosa del genere? Perché, attenti come sono a “cosa vuole sapere il professore”, adottano poi uno schema comportamentale (non oso chiamarlo cognitivo) evidentemente derivato da altre discipline e da altri, precedenti, anni scolastici? A queste domande qualche risposta riesco a balbettarla: evidentemente hanno acquisito, nei vari anni scolastici, la convinzione che a loro sia richiesto di ripetere a memoria e senza senso un qualche testo che gli è stato proposto. La memoria riescono ad usarla, almeno quelli che un po’ di sforzo sono disposti a metterci, e così la utilizzano al posto della sistematizzazione, della modellazione, del pensiero critico, della capacità di applicare le conoscenze alla soluzione di problemi. “Fa proprio schifo la scuola, pensa sempre lo stesso sottoscritto prof, se è riuscita a fare tutto questo danno!” Ma ancora non abbiamo finito con le categorie di impreparazione, arriviamo a quella che proprio stamattina mi ha provocato una violenta reazione di indignazione, sì, proprio così, indignazione. Stiamo parlando della categoria di studenti che magari sembrano anche bravini, ti illudi, quando li guardi seduti ai loro posti: prendono appunti, in qualche modo seguono ( almeno ti fanno capire questo), sembrano ragionevoli e ordinati. In qualche modo il povero prof  si ritrova a nutrire una qualche aspettativa nei loro confronti, almeno loro una bella interrogazione me la faranno sperimentare! Atrocemente sbagliato . . . quello che è successo stamattina mi ha fatto pensare ad un novello medioevo, alla superstizione, alla mancanza totale di raziocinio. Un ragazzo cui avevo chiesto di calcolare la corrente in un semplice circuito comincia a scrivere delle cose alla lavagna: ebbene mi accorgo che al posto di seguire i passaggi logici e matematici del caso sta arrancando ancora una volta facendo ricorso alla memoria. Il risultato è che la stessa grandezza elettrica scritta in due righe successive cambia forma e sostanza! Richiesto del perché e invitato a fare l’evidente correzione il ragazzo non riesce a fornire alcuna spiegazione e a modificare di una virgola il suo operato.. Questo episodio, ripetuto tante volte, e tanti altri che qui non racconto sennò esaurisco il blog, mi fanno chiaramente capire quanto grande e grave sia lo scollamento tra il segno e il suo significato. Ciò accade per i simboli, per le lettere, per le espressioni matematiche e non. Non è solo questione di “formule” matematiche: lo stesso avviene con un testo verbale o multimediale che sia, lo stesso avviene con un grafico e una schematizzazione. Ciò che viene scritto e riportato dai ragazzi per i medesimi non ha alcun significato, si tratta di un qualcosa che viene portato fuori in qualche modo che esclude certamente il ragionamento, la consequenzialità, lo sviluppo di un pensiero, il seguire un processo.  Il risultato è che vengono fuori delle cose senza senso e che nessuno in classe sia in condizioni di accorgersi che sono senza senso! Il paradigma “soggetto-predicato-complemento” è del tutto disatteso: al posto di frasi, anche molto semplici, vengo fuori solo singole parole chiave. La distinzione di causa ed effetto è totalmente assente, del fenomeno osservato, del sistema studiato non si distingue il sopra dal sotto, l’ingresso dall’uscita. Devo dire che questa cosa mi ha molto spaventato, mi sembra segno e sintomo di una rinuncia a pensare, a capire, a imparare. Mi sembra che lo spirito dei “lumi”, della razionalità, che pure riteniamo fondante di tutto il nostro pensiero contemporaneo e della maggior parte delle nostre competenze sia andato totalmente perduto. Ammetto di essere impreparato io, questa volta, ad affrontare questa emergenza. E come si fa? Tutto l’anno non ho fatto altro che mostrare loro esempi di ragionamento, allenandoli a “tradurre” una espressione matematica in italiano o a tradurre una affermazione in espressione matematica. Tutto l’anno ho proposto loro schemi, diagrammi e modelli mostrando come già la semplice loro “lettura” sia fondamentale atto conoscitivo. Devo ammetterlo: mi sembrano pazzi (attenzione, sto parlando di individui dai 16 ai venti anni, non di bambini) quando vedo indifferenza di fronte a tutta questa evidenza. Mi sembra che siano pronti a credere e ad agire in base a tutto quell’insieme di superstizioni e di credenze di cui nei recenti passati secoli ci siamo, a fatica, liberati. Se lo stesso gatto ( o corrente elettrica nel caso dell’alunno di cui sopra) in un rigo è bianco e nel successivo è nero significa che il pensiero è stato abolito. Cosa è successo a queste generazioni? E’ effetto del mercato? E’ effetto del ventennio berlusconiano nella cultura del quale sono cresciuti? E’ effetto della disponibilità immediata in rete di così tante informazioni che non sanno che farsene? E che possiamo fare, come docenti, per correggere la rotta?