La Palermo degli ultimi

Sono andato venerdì sera alla inaugurazione della mostra di Giacomo D’Aguanno e Francesco Faraci. Li conosco entrambi da tempo e conoscevo giá le loro foto e quindi in qualche modo mi sentivo “preparato” ad una sorta di gradevole deja-vu sui noti temi della palermitanitudine. Invece no, sin da subito la mostra mi spiazza con la sua giustapposizione, con l’affiancamento di bianconero e colore, con il mescolamento insieme manifesto e implicito delle immagini dei due autori e subito penso alla estrema rischiosità dell’operazione prevedendo di dover assistere ad una certa disastrosità espositiva. Ebbene, non mi vergogno a dirlo, mi stavo sbagliando clamorosamente: l’idea, mi è stato confermato dalla curatrice, è stata di Giacomo e Francesco i quali, pur non essendosi direttamente frequentati prima di questa occasione, riescono miracolosamente a mettere insieme i loro lavori, ad abbandonare quelle che nell’ambiente palermitano (credo non esclusivamente) sono le ben conosciute miserelle gelosie professionali di chi si ritrova ad operare nel medesimo ambiente e ad optare per quello che credo non possa altrimenti essere definito che un atto di amore per questa città, i suoi abitanti, i suoi irredimibili problemi.

L’esposizione è arricchita con un ben fatto catalogo (tra l’altro distribuito gratuitamente) corredato da significative presentazioni tra le quali spicca quella di Giosuè Calaciura che è riuscito a mio parere a centrare più degli altri il senso e l’importanza del lavoro in mostra e a meglio esprimerlo, restituendo per intero il senso della validità di una idea invero non nuovissima per questa città e tuttavia sempre valida e, grazie alla qualità complessiva, ancora opportuna.  Mi permetto di citarne una brevissima parte:

È ancora attraverso le fotografie che Palermo continua ad offrire qualche notizia di sé, si lascia leggere, in qualche caso decifrare, accetta una minima interpretazione di se stessa, a volte persino mettendosi in posa nella consapevolezza irridente del suo mistero. […] A Palermo, quasi un mandato, quello della fotografia.

Uomini o sardine

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Leggo oggi gli interessanti e belli articoli su Pasolini. Quando è morto, nel 75, ero troppo giovane per avere una idea compiuta dell’uomo e dell’artista. Si, mi ero imbattuto in qualche suo film ma, sinceramente, non ne ero rimasto granché impressionato. Oggi, appena più consapevole di allora, comincio ad apprezzare e rimango assai colpito da alcune affermazioni che trovo riportata:

«La matrice che genera tutti gli italiani è ormai la stessa — scriveva, nel 1974 — Non c’è più dunque differenza apprezzabile… tra un qualsiasi cittadino italiano fascista e un qualsiasi cittadino italiano antifascista. Essi sono culturalmente, psicologicamente, e quel che più impressiona, fisicamente, interscambiabili… I giovani neofascisti che con le loro bombe hanno insanguinato l’Italia, non sono più fascisti… Se per un caso impossibile essi ripristinassero a suon di bombe il fascismo, non accetterebbero mai di ritornare ad una Italia scomoda e rustica, l’Italia senza televisione e senza benessere, l’Italia senza motociclette e giubbotti di cuoio, l’Italia con le donne chiuse in casa e semivelate. Essi sono pervasi come tutti gli altri dagli effetti del nuovo potere che li rende simili tra loro e profondamente diversi rispetto ai loro predecessori».

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Meno male che c’è Radio 3!

Qual’è la vostra radio preferita? Io ne ho due: Virgin Radio e Radio3. La prima per la musica sbomballante, ovviamente, la seconda…. beh, la seconda è tutta un’altra cosa. Si perché Radio 3 sembra essere il fossile vivente di una epoca nella quale la ragione, l’uso del confronto dialettico,  il piacere di elaborare pacatamente il pensiero, la ricerca, la curiosità verso il mondo, il tentativo di capire come stanno le cose venivano considerate cose belle, buone e importanti. Atteggiamenti da valorizzare e perseguire. Un pugno di persone riescono ancora a fare una radio di questo tipo.  Come fai a trovare il tempo di seguirla, mi si dice. La risposta è semplice: intanto, tranne rari film, non guardo televisione…. (si, ho sangue alieno nelle vene . . ). E poi ci sono i podcast! Non so perché, i podcast siano così poco frequentati, sono semplici da usare e comodissimi. Così spesso la sera mi ritrovo a lavorare sulle foto e ad ascoltare qualche podcast di Radio 3.

Ma in realtà sto divagando, mi sono lasciato prendere la mano e invece volevo dire un’altra cosa: oggi la giornata intera su Radio 3 è stata dedicata all’uso della lingua italiana. Una cosa intelligente, direi, un qualcosa di veramente opportuno, e anche, perché no, un atto d’amore.

Le Vie dei Tesori

Passeggiata domenicale, stamattina, l’intenzione è quella di andare a visitare Palazzo De Seta, è una vita intera che lo vedo chiuso, la curiosità è massima, occasione da non perdere. Coda micidiale! Si tratta di due ore circa, vabbé, forse non è il caso di aspettare, ci sono tante altre cose da vedere!

Ed in effetti è proprio così, la attuale edizione de “Le vie dei tesori”, conferma che si tratta di una iniziativa di grandissimo successo, i palermitani partecipano numerosissimi e anche i turisti non mancano. La nostra scelta (alternativa) è caduta sulla Cripta della Chiesa dei Cocchieri e sulla mostra “Le Stanze del Genio”. Dappertutto gente contenta e soddisfatta, personale, soprattutto ragazzi e ragazze gentili e disponibili, tutto bene, unico disappunto “ma perché queste cose non possiamo farle tutto l’anno?” Immagino che i motivi logistici ed economici possano essere lungamente elencati tuttavia mi pare di capire che uno dei motivi del successo sta proprio nella transitorietà e nella fuggevolezza, sono occasioni da prendere al volo e se, come oggi, la giornata è bella, allora la città diventa godibile. Addirittura ci si può persino spingere a pensare che qualche motivo per viverci, intendo in questa città, ebbene qualche motivo riusciamo persino a trovarlo!

L’ultima caccia

Se qualcuno avesse voglia di vedere cosa ho letto questa estate, e ho fatto letture soddisfacenti, potrebbe andare a curiosare nella mia libreria su Anobii per vedere titoli e stelline assegnate. Recensioni in questo periodo non ne ho fatte, mi accingo qui a scrivere qualche rigo per l’ultima lettura: L’ultima caccia di Joe R. Lansdale. Ed in effetti non si tratta di recensione (anche per questo non la scrivo su Anobii) ma di qualche considerazione che la lettura mi ha sollecitato.

L'ultima caccia - Joe LansdaleLa cosa che mi ha colpito di più è stata la determinazione ad uccidere il cinghiale-mostro e la consuetudine dei personaggi, si tratta pur sempre di ragazzi, all’uso delle armi e alle strategie della caccia. Fossimo a scuola parleremmo di vere e proprie “competenze”. Mi colpisce non tanto in sé, non siamo in presenza qui di una sorta di “Moby Dick” in salsa western, quanto piuttosto al pensiero delle differenze culturali tra la mia generazione e la generazione degli attuali ventenni per i quali, credo, il senso ricavato dal libro sarebbe affatto differente dal mio. Personalmente ho un chiaro ricordo della diffusione – parlo della Sicilia – delle armi nelle campagne degli anni 60: i carrettieri portavano sempre con sé la “scopetta” ad uso difesa personale. Ma un fucile da caccia c’era in tutte le case e andare, di tanto in tanto, a sparare ad un coniglio era del tutto normale. Anche una certa dose di bracconaggio era del tutto normale . . . L’inseguimento e l’eccitazione personale e dei cani, per quanto per “prede” non lontanamente paragonabili al cinghiale del libro, non mi sono quindi estranee, anzi, credo costituiscano una parte importante della mia formazione “naturalistica” soprattutto per quanto riguarda la percezione della vita e della morte e dell’umano arbitrio nel dare la vita o nel dare la morte. Per i giovani attuali non andare a caccia è un imperativo morale, per la mia generazione, a partire da un verto punto, è stata una scelta. Già per questo motivo ho la sensazione che il romanzo, considerato di “formazione”, sugli attuali giovani non avrebbe questo effetto. Ma ci sono anche altre importanti differenze: il voler diventare rapidamente adulti, il formarsi un carattere indipendente e coraggioso, il bisogno di sfidare le autorità dei genitori non appartengono più, oggi, all’antropologia dell’adolescente e del giovane adulto. Con questo non voglio coniugare l’usuale, retorico, discorso “dei vecchi bei tempi”, sono certo che gli attuali giovani siano obbligati ad affrontare sfide altrettanto impegnative, o forse più impegnative se riflettiamo alla complessità dell’economia e del mondo del lavoro, semplicemente mi fermo ad osservare che le attuali sfide riguardano sempre più un mondo artificiale un mondo lontano dal contatto con le ruvidezze e le bellezze della natura.

Un morbido approccio ad un cuore di tenebra

Mi ha decisamente colpito nel discorso di Suki Kim l’assenza delle classiche parole “lotta” e “battaglia”, parole decisamente inflazionate nel gergo politico e giornalistico dei nostri regimi, mi riferisco ai regimi europei, che certamente sono incredibilmente aperti e democratici rispetto a quello della Corea del Nord. Ci sarebbe veramente da riflettere sul perché noi siamo affezionati ad una retorica così palesemente basata sul conflitto….

https://embed-ssl.ted.com/talks/lang/en/suki_kim_this_is_what_it_s_like_to_teach_in_north_korea.html

Riflessione scolastica

Periodo difficile questo che precede la chiusura dell’anno scolastico: difficile perché è tempo, in tutti i sensi, di valutazioni finali, è il tempo nel quale si capisce cosa si è riuscito, o meno, insegnare ai propri alunni. Attacco subito con un mea culpa: ebbene si, credo mai come quest’anno, la percentuale di insuccesso formativo,  i n s u c c e s s o, sì, sia vicina al 100%. In altre parole: non sono riuscito ad insegnare niente a nessuno! O quasi. Non c’è da stare sereni, proprio per niente. Ovvio interrogarsi sulle cause: ebbene, credo proprio di avere sbagliato tutto! Lasciatemi dire come. Quest’anno, per la prima volta da quando insegno elettronica, non ho avuto quinte. E già, con l’ultima riforma nell’indirizzo “Informatica” dei tecnici, elettronica si ferma al quarto anno. Magnifico, dico io ai ragazzi, vuol dire che finalmente saremo liberi di fare qualcosa di veramente significativo perché non avremo da prepararci alle classiche domande di esame! Di conseguenza centro tutta la mia attività su un qualcosa che a scuola è rivoluzionario, metto in mano ai ragazzi “Arduino”, ovvero metto nelle loro mani il cuore pulsante dell’intero movimento dei makers a livello mondiale! Chissà cosa verrà fuori, pensavo. E infatti non è venuto fuori praticamente niente. Dopo qualche iniziale settimana, esaurito l’effetto novità, le dinamiche sono state quelle purtroppo ormai usuali: resistenza passiva, disinteresse, incuria, sciatteria. Il risultato è quello che ho già detto. La considerazione è che, evidentemente, ho sbagliato ancora una volta a prevedere la reazione dei ragazzi; ho pensato a quello che sarebbe successo a me, alla curiosità che la proposta avrebbe generato, all’interesse e alla motivazione conseguente.

Ma credo che su questo tema della demotivazione altri, molto più quotati di me, hanno già speso le loro riflessioni. Mi dirigo quindi ad una seconda riflessione sul tema, ma anche questa volta devo brevemente raccontare da cosa scaturisca. Ebbene, tempo di interrogazioni finali, incastro me e loro, loro, ovvero i ragazzi delle varie classi, intendo, con uno stringente calendario di interrogazioni programmate. Per ogni classe i vari nomi giorno per giorno, gli argomenti sui quali avrei centrato la verifica, gli eventuali materiali ad integrazione degli appunti e del libro di testo. Tutto ben comunicato e organizzato su “Edmodo”, piattaforma che usiamo un po’ tutti per comunicare con i ragazzi al di là della presenza in classe. Risultato: quasi tutti si fanno trovare impreparati! E qua il discorso si fa assai impegnativo: che vuol dire “impreparati”? Ci sono quelli che, nonostante fossero perfettamente a conoscenza della scadenza, hanno ritenuto che non fosse il caso di preparare il colloquio. E infatti te lo dicono subito: “no professore, sono impreparato . . .” Vabbé si fa presto a mettere un due e andare avanti. Poi ci sono quelli che accettano il colloquio esaurendolo dopo le prime tre parole (non scherzo) dell’argomento ” a piacere”. Vabbé, hanno fatto lo sforzo di alzarsi dal posto, si beccano un tre e avanti un altro. Loro vanno via non contenti ma nemmeno dispiaciuti. Il prof sottoscritto rimane assai pensoso e si fa domande del genere: “era o non era consapevole di non sapere nulla?”; “come mai la scelta di un argomento del quale non si riesce a parlare?”; “quale il livello di consapevolezza circa i propri saperi?”. Ma le categorie di impreparazione non sono ancora finite: ci sono quelli che vengono a ripetere a memoria un testo che somiglia ad un temino delle elementari (giuro, non ho nulla contro le elementari, anzi il contrario) ma che non hanno alcuna capacità di ragionare su uno schema, un diagramma, delle caratteristiche tecniche, delle espressioni matematiche. Li classifichiamo come “immaturi”, prendono un bel quattro e vanno al posto un po’ perplessi: “ho parlato e ho ripetuto”, pensano loro . . . come mai il quattro? E sempre il sottoscritto docente rimane lì a farsi, tra sé e sé, ulteriori domande: ” ma dove l’hanno presa questa cosa del temino da bravo bambino quando nemmeno una volta in classe abbiamo fatto qualcosa del genere? Perché, attenti come sono a “cosa vuole sapere il professore”, adottano poi uno schema comportamentale (non oso chiamarlo cognitivo) evidentemente derivato da altre discipline e da altri, precedenti, anni scolastici? A queste domande qualche risposta riesco a balbettarla: evidentemente hanno acquisito, nei vari anni scolastici, la convinzione che a loro sia richiesto di ripetere a memoria e senza senso un qualche testo che gli è stato proposto. La memoria riescono ad usarla, almeno quelli che un po’ di sforzo sono disposti a metterci, e così la utilizzano al posto della sistematizzazione, della modellazione, del pensiero critico, della capacità di applicare le conoscenze alla soluzione di problemi. “Fa proprio schifo la scuola, pensa sempre lo stesso sottoscritto prof, se è riuscita a fare tutto questo danno!” Ma ancora non abbiamo finito con le categorie di impreparazione, arriviamo a quella che proprio stamattina mi ha provocato una violenta reazione di indignazione, sì, proprio così, indignazione. Stiamo parlando della categoria di studenti che magari sembrano anche bravini, ti illudi, quando li guardi seduti ai loro posti: prendono appunti, in qualche modo seguono ( almeno ti fanno capire questo), sembrano ragionevoli e ordinati. In qualche modo il povero prof  si ritrova a nutrire una qualche aspettativa nei loro confronti, almeno loro una bella interrogazione me la faranno sperimentare! Atrocemente sbagliato . . . quello che è successo stamattina mi ha fatto pensare ad un novello medioevo, alla superstizione, alla mancanza totale di raziocinio. Un ragazzo cui avevo chiesto di calcolare la corrente in un semplice circuito comincia a scrivere delle cose alla lavagna: ebbene mi accorgo che al posto di seguire i passaggi logici e matematici del caso sta arrancando ancora una volta facendo ricorso alla memoria. Il risultato è che la stessa grandezza elettrica scritta in due righe successive cambia forma e sostanza! Richiesto del perché e invitato a fare l’evidente correzione il ragazzo non riesce a fornire alcuna spiegazione e a modificare di una virgola il suo operato.. Questo episodio, ripetuto tante volte, e tanti altri che qui non racconto sennò esaurisco il blog, mi fanno chiaramente capire quanto grande e grave sia lo scollamento tra il segno e il suo significato. Ciò accade per i simboli, per le lettere, per le espressioni matematiche e non. Non è solo questione di “formule” matematiche: lo stesso avviene con un testo verbale o multimediale che sia, lo stesso avviene con un grafico e una schematizzazione. Ciò che viene scritto e riportato dai ragazzi per i medesimi non ha alcun significato, si tratta di un qualcosa che viene portato fuori in qualche modo che esclude certamente il ragionamento, la consequenzialità, lo sviluppo di un pensiero, il seguire un processo.  Il risultato è che vengono fuori delle cose senza senso e che nessuno in classe sia in condizioni di accorgersi che sono senza senso! Il paradigma “soggetto-predicato-complemento” è del tutto disatteso: al posto di frasi, anche molto semplici, vengo fuori solo singole parole chiave. La distinzione di causa ed effetto è totalmente assente, del fenomeno osservato, del sistema studiato non si distingue il sopra dal sotto, l’ingresso dall’uscita. Devo dire che questa cosa mi ha molto spaventato, mi sembra segno e sintomo di una rinuncia a pensare, a capire, a imparare. Mi sembra che lo spirito dei “lumi”, della razionalità, che pure riteniamo fondante di tutto il nostro pensiero contemporaneo e della maggior parte delle nostre competenze sia andato totalmente perduto. Ammetto di essere impreparato io, questa volta, ad affrontare questa emergenza. E come si fa? Tutto l’anno non ho fatto altro che mostrare loro esempi di ragionamento, allenandoli a “tradurre” una espressione matematica in italiano o a tradurre una affermazione in espressione matematica. Tutto l’anno ho proposto loro schemi, diagrammi e modelli mostrando come già la semplice loro “lettura” sia fondamentale atto conoscitivo. Devo ammetterlo: mi sembrano pazzi (attenzione, sto parlando di individui dai 16 ai venti anni, non di bambini) quando vedo indifferenza di fronte a tutta questa evidenza. Mi sembra che siano pronti a credere e ad agire in base a tutto quell’insieme di superstizioni e di credenze di cui nei recenti passati secoli ci siamo, a fatica, liberati. Se lo stesso gatto ( o corrente elettrica nel caso dell’alunno di cui sopra) in un rigo è bianco e nel successivo è nero significa che il pensiero è stato abolito. Cosa è successo a queste generazioni? E’ effetto del mercato? E’ effetto del ventennio berlusconiano nella cultura del quale sono cresciuti? E’ effetto della disponibilità immediata in rete di così tante informazioni che non sanno che farsene? E che possiamo fare, come docenti, per correggere la rotta?

 

Selezione foto 2014

Ho composto e stampato su Blurb una selezione di fotografie realizzate nel corso del 2014. IL libro è sfogliabile elettronicamente qui di seguito:

Esporre il lavoro

Ho pubblicato un articolo su Humansofsicily , ne riporto qui uno stralcio e il link all’articolo completo.

Abbiamo a lungo dibattuto tra noi di cosa dovesse esser parte del tema “humans” e di come svilupparlo. Di come realizzare le serie di foto, se privilegiare la scoperta oppure se lavorare e perfezionare a lungo un tema. Abbiamo riflettuto sulla natura e qualità dei risultati sino ad ora raggiunti, su quanto ci soddisfino o non ci soddisfino. Abbiamo riflettuto sul possibile dilettantismo che rischia di emergere dalle serie pubblicate e sul significato della parola “autorialità” che citiamo nel nostro manifesto. La lettura che, in questo periodo, sto facendo del piccolo, ma sostanzioso, “Cos’è l’arte?” di Joseph Beuys (qui la recensione) mi consente di estrarre qualche passaggio che mi sembra significativo.

Charlie Haden – Jim Hall

Magnifico ascolto stasera!

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