Salire in politica

Sono molto contento della avvenuta adozione dell’espressione “salire in politica” adoperata da Monti, credo sia un altro segno del concreto tentativo di distacco dal ventennio berlusconista. Mi auguro che i giornalisti cancellino dalla prassi professionale l’utilizzo di “scendere in campo“, restituendo al calcio quello che è del calcio e liberandoci dall’ennesimo stupro della lingua italiana.

Per una divergenza del pensiero economico

Leggo su Sole24ore un intessante articolo dal pessimo titolo “Occupazione 3.0”. Vabbè, si sa che i titolisti sono quello che sono, il contenuto mi è sembrato interessante e mi ha dato conferma di alcuni pensieri che vado facendo da qualche tempo a questa parte. Il nobel per l’economia Michael Spence, nobel nonché docente della Stanford University afferma

Occorrerà adottare un nuovo modello di crescita…. Il vecchio sistema, basato sul debito, non può funzionare.

Come dire, magari non era necessario essere un nobel per pensarla, questa cosa 😉 Comunque il fatto che sia un nobel ad affermarla immagino sia un conforto per quanti pensano che il sistema dell’incremento all’infinito dei consumi non possa essere alla lunga praticabile: anche ammesso di trovare modi sempre nuovi per colmare il fabbisogno energetico e tecnologie innovative per i materiali rimane l’incontrovertibile limite della finitezza del sistema terra.
Dunque: che vogliamo fare? Andare avanti come sappiamo nella certezza che si tratti di una corsa verso il disastro o investire per sperimentare e poi affermare un nuovo modello economico e di sviluppo? Secondo il mio sentire la domanda sarebbe da giudicare del tutto retorica ma da quel che vedo e che riesco a leggere non e affatto così! Le ricette per uscire dalla crisi sembrano tutte centrate sulla ripresa dei consumi, tutte con l’attenzione rivolta alla contingenza e manca quella capacità di vedere lo sviluppo nel tempo.
Mi auguro che affermazioni come quelle di Spence possano contribuire a creare un pò di divergenza tra gli economisti pensatori. Da parte nostra, e qui penso alla comunità dei docenti e dei formatori, credo ci sia la consapevolezza che si stia andando comunque verso sistemi che richiedono e sempre più a tutti richiederanno di diventare “più bravi”. Le competenze professionali e civiche dovranno sicuramente aumentare, e non di poco! Gli investimenti in formazione dovranno sicuramente crescere. Non saprei con esattezza affermare come potremmo cercare di convincerci sulla necessità di questo cambiamento, ma vedo e sento voci sparse (vedi ad esempio Come un fiore sul ciglio del prato (Natale 2012)) che, magari con un punto di osservazione diverso, tentano di convergere verso il medesimo risultato.

Neuroni specchio, accesso alla conoscenza

Soddisfacente lettura del quotidiano (La Repubblica), stamattina, due gli articoli che mi hanno interessato di più. Nel primo, Neuroni appassionati, Giacomo Rizzolatti viene intervistato sulle conseguenze del comportamento dei “neuroni specchio” sulle emozioni e sull’amore, tema senz’altro evocativo e affascinante a proposito del quale fa una affermazione che mi sembra interessante al fine della definizione e caratterizzazione dell’essere umano:

«I neuroni specchio si trovano nelle aree motorie, e descrivono l’azione altrui nel cervello di chi guarda in termini motori. Fino a non molti anni fa, si riteneva che il sistema motorio producesse solo movimenti. Noi, partendo da un approccio etologico, senza convinzioni a priori sulla funzione delle aree motorie, abbiamo scoperto che molti neuroni del sistema motorio rispondono a stimoli visivi. Se vedo una persona che afferra una bottiglia colgo subito il suo gesto perché è già neurologicamente programmata in me la maniera in cui afferrarla. Si verifica una comprensione istantanea dell’altro, senza bisogno di mettere in gioco processi cognitivi superiori. In seguito abbiamo visto che la stessa cosa capita
per le emozioni. Per esempio il disgusto. Somministrando a una persona uno stimolo olfattivo sgradevole, come l’odore delle uova marce, si attivano determinate parti del cervello. Una di queste è l’insula, un’area corticale che interviene negli stati emozionali. La sorpresa è stata che, se uno guarda qualcuno disgustato, si attiva in lui esattamente la stessa zona dell’insula. Questo permette di uscire da un concetto mentalistico e freddo, riportando tutto al corpo. Io ti capisco perché sei simile a me. C’è un legame intimo, naturale e profondo tra gli esseri umani. Ama il tuo prossimo come te stesso».

Nel secondo, “Il vero spread è quello della conoscenza”, Marc Augé individua nelle differenze di possibilità di accesso all’istruzione una causa di disuguaglianza più forte di quelle di origine economica (non negando, evidentemente, tutte le possibile interdipendenze) e afferma:

La storia ha un senso? Quale senso? L’unico senso è la conoscenza. E l’unico ostacolo alla conoscenza è l’arroganza intellettuale degli allucinati di ogni sorta che vogliono imporre le loro convinzioni all’umanità…..Se un giorno ci sarà una rivoluzione sarà una rivoluzione dell’istruzione e dell’educazione alla libertà.

E le fotografie

E le fotografie, dal fondo del tempo, stavano a guardarci. Rappresentavano davvero, come aveva scritto nel 1984, “l’arte di dar caccia al volto del presente, com’esso emerge dal futuro ignoto per scivolare nell’imprendibile passato”.

Tratto da Nostro Sud di Fosco Maraini, pag 23

Docente-autore: una difficoltá

Leggo ne “Adottare l’elearning a scuola” di roberto Maragliano:

… nella rete, in misura assai più pronunciata di come questo avviene nel mondo fisico, il docente è anche autore, in quanto comunica con gli allievi tramite scrittura e/o registrazione audio/video. Autore può esserlo in misura elevata come in misura minima, a seconda del modello didattico cui fa riferimento, cioè se è molto o poco attivo in rete, ma non potrà mai considerare se stesso come semplice docente che fa lezione: sarà sì docente ma anche autore, in quanto lascerà traccia scritta o video/audio registrata della sua azione, in quanto si sarà fatto “testo”. E così il docente che adotta l’e-learning adotta se stesso anche come autore.

Mi sembra si possa qui individuare uno dei motivi di difficoltà che l’introduzione dell’elearning incontra nella scuola. La considerazione è di stampo pessimistico, mi sento però di farla per lunga esperienza diretta con i colleghi: la maggior parte non è affatto contento di una simile prospettiva. Molti addirittura la vedono come fumo negli occhi, un pò per pigrizia, un molto per non esporsi a possibili critiche, non esporre al giudizio pubblico la propria (in)competenza professionale.
Brutto ma vero.

Le metodologie didattiche sono espressione e realizzazione di valori

Leggo su “Didattica attiva con la Lim” una bella citazione di Bruno Ciari:

Gli strumenti sono utilizzabili per scopi diversi, Le metodologie didattiche sono espressione e realizzazione di valori

E subito mi si scatena una serie di riflessioni.

Quindi chi sostiene che sia necessario tornare alla scuola “all’antica” non sta facendo altro che abdicare alla possibilità di guardare e analizzare la trasformazione della società e delle stessa conoscenza a favore di un modello che coincide con quello “subito” da bambino e da ragazzo durante il suo periodo scolastico.
In questo senso sembra delinearsi chiaramente una significativa concordanza tra gli obiettivi dell’azione educativa e i metodi adottati per realizzarla. Questa cosa sembra assolutamente chiara se pensiamo ad esempio alla gentilezza: insegnare ad un bambino ad essere gentile richiede la pratica della gentilezza verso lo stesso bambino che in tal modo ha la possibilità di sperimentare cosa la gentilezza sia e quali ne siano gli effetti quando se ne è fatti oggetto. Nessuno penserebbe di insegnare la gentilezza con la violenza…
Adottare quindi come metodo educativo scolastico quello della ripetizione di contenuti codificati dal testo , ovvero la classica dinamica scolastica , mi sembra solamente idoneo allo sviluppo dell’individuo conformista. Cosa del resto facilmente riconoscibile tra gli obiettivi della scuola almeno sino agli anni 70: riuscire nella vita significava conformare la propria testa, ovvero il proprio pensiero, le proprie convinzioni, il proprio sentire a modelli di volta in volta coincidenti con quelli precodificati per i vari mestieri e professioni.
Chi continua a sostenere una tesi del genere non si rende conto ( in qualche caso in buona fede) che gli obiettivi della scuola sono molto cambiati! Se non altro, volendo trascurare tutte le istanze libertarie e di rinnovamento emerse nella seconda metà del secolo scorso, per un motivo assolutamente strumentale: i ragazzi che oggi terminano gli studi devono essere molto più praparati dei loro omologhi dei decenni precedenti. Lo sostengo pensando alla accresciuta complessità del sistema nel quale viviamo e dal quale dobbiamo trarre il nostro sostentamento (non basta più “imparare un mestiere”) , pensando all’accresciuta mole di conoscenze e competenze legate ai settori tecnici e scientifici, pensando al rimanere sul territorio nazionale di sempre minori opportunità legate al classico manifatturiero (esportato in paesi che garantiscono una molto maggiore economia della realizzazione) capace di assorbire rapidamente masse di persone con limitati livelli di scolarizzazione e specializzazione. Pensando che dobbiamo diventare sempre “più bravi” in tutto ciò che ci toccherà di fare.

Cultura, Natura, Bauman

Su R2 di oggi un interessante articolo di Bauman: http://www.repubblica.it/dal-quotidiano/r2/2011/09/17/news/perch_serve_una_eco-scienza-21784844/
L’argomento, un classico, quello del rapporto tra cultura e natura. Bauman sostiene, pena l’andare incontro a disastri colossali, la necessità di un forte cambiamento epocale, la necessità di trovare una maniera per contemperare gli interessi dell’uomo con quelli di tutte le altre specie viventi. Da uomo colto lo fa con importanti citazioni storiche e filosofiche. Nella pagina a fianco gli fa da eco Esposito, questa volta con una citazione letteraria, scomodando Leopardi.
L’uno e l’altro dicono delle cose giuste e interessanti ma rimango con la sensazione che il vero nocciolo del problema non sia nemmeno stato sfiorato: rimane vivo e vegeto, infatti (almeno questo è quanto sia io riuscito ad interpretare), il convincimento della contrapposizione “di fatto” tra natura e cultura, essendo quest’ultima al di fuori, estranea, alla prima. E quindi destinate storicamente a scontrarsi.
A mio parere si tratta di una contrapposizione falsa: la cultura fa parte della natura dell’uomo. Ogni specie vivente opera in modo tale da modificare l’ambiente in cui vive e l’uomo non fa eccezione: l’ambiente in cui vive e opera non obbedisce peró solamente a quanto ci insegna l’ecologia classica: accanto alle componenti biotiche e abiotiche del sistema, unitamente ai flussi di energia e materia, dobbiamo considerare anche la presenza e la dinamiche della cultura (forse dovremmo dire delle culture al plurale). L’uomo determina l’ambiente in cui vive realizzandovi anche delle strutture immateriali, delle ardite costruzioni del pensiero. Ciò che vorrei affermare, cioè, è che la cultura va considerata come elemento interno al sistema e quindi la sua influenza probabilmente è diversa da quanto potremmo aspettarci da un elemento “esterno”. Cercheró di mettere a fuoco in cosa consiste questa diversità.
Le specie viventi si mantengono in equilibrio grazie alla retroazione negativa dell’ambiente che si attuano con le note dinamiche tra disponibilità di cibo e di spazio e presenza di predatori ed elementi patogeni (mi si perdoni l’estrema brevità e semplificazione). Quando la popolazione di una specie raggiunge una certa consistenza, il feedback ambientale opera in modo da arrestare il processo: diminuisce la disponibilità per ogni individuo della specie delle risorse, aumenta il numero dei predatori e quindi dei predati. Si tratta di una legge spietata quanto raffinata, almeno nel senso del provilegiare, direi quasi perseguire, il raggiungimento della massima complessità. In termodinamica diremmo che si tende ad un minimo dell’entropia.
In quanto specie vivente l’uomo non è estraneo a questa dinamica: la sua intrinseca “missione” (ahimè chiaramente espressa persino nelle scritture bibliche) è quella di espandersi e moltiplicarsi. Sino a quando? Sino al feedback della terra, ovvero sino a quando le catastrofi epidemiologiche e la scarsità di cibo e di energia non procurerà la fine per milioni o miliardi di individui della nostra specie.
Sebbene insignificante sul piano cosmico un evento di questo genere sarebbe per noi assai spiacevole e preoccupante. E non risolvibile, come afferma Bauman (ma l’abbiamo sentito ripetere per decenni da Piero Angela), con lo sviluppo di nuovi saperi tecnici e scientifici, in quanto tali saperi, agendo dall’interno, analogamente a quanto accaduto sino ad ora, non potrebbero che obbedire al primitivo quanto imperativo scopo della specie.

In principio c’era la parola?

More about In principio c'era la parola?Appena finito di leggerlo. Libro piccolo ma molto sostanzioso, soprattutto per chi, come me, non ha una formazione di tipo linguistico. Allo tempo perfettamente leggibile, comprensibile e molto godibile. Non è il caso che mi eserciti in questa sede nel tentativo di scriverne una recensione, in rete se ne trovano di molto migliori di quanto non potrei fare io, mi limito quindi a qualche riflessione, il libro ne sollecita parecchie.
Intanto si tratta di un tema e di un testo che volano molto “alti”! Mai in maniera pretenziosa, accademica o pomposa, tutt’altro. Se De Mauro riesce a renderla così chiaramente è solamente in virtù delle sue indiscusse doti di studioso e di pensatore. E in questo periodo di comunicazione di massa centrata sulle vicende da letto del premier ha costituito per me un vero balsamo rinfrescante. Il testo tratta dei rapporti tra il costituirsi delle lingue e delle identità sociali, in un processo mutuamente generante.
Davvero interessante la parte finale nella quale evidenzia come la Costituzione Italiana preveda la tutela delle minoranze linguistiche come strumento di garanzia delle molteplicità culturali e si occupi di prescrivere la messa in atto della rimozione di tutti gli ostacoli alla partecipazione delle medesime minoranze. Riporto due illuminanti citazioni:

Quello che mi interessa però sottolineare, e che in definitiva il nostro ordinamento ci aiuta a capire, è che nell’ordinamento stesso il nesso fra lingua e società è un nesso portante nella definizione e nell’indicazione dei principi di base, che trovano poi completamento nell’idea degli articoli centrali della Costituzione, sul carattere primariamente pubblico della funzione educante. È compito della Repubblica istituire scuole e università.

E ancora:

Bene, bisogna che alle discussioni che fanno il tessuto della vita democratica possano partecipare tutti, quale che sia la loro lingua materna, usando questa o apprendendo la lingua più diffusa, che è orami diventata davvero la lingua italiana, privilegio di pochi fino a cinquant’anni fa. E scuola ed educazione linguistica hanno una funzione centrale in ciò. Spendere in scuola e in educazione è un investimento per la democrazia.

Usare il cellulare in classe?

Domandarsi “dovremmo usare il telefono cellulare in classe ” è quasi privo di significato. Sarebbe come domandarsi se sia il caso di mangiare. Ovviamente sì! Ma quando? In quali circostanze? Per quali scopi? Non rispondere a queste domande significa creare nel dibattito dei buchi neri.

E’ quanto sostiene George Siemens in Technology & Humanity: Finding Points of Harmony

Learning object chiusi: non sono vera innovazione

E’ quanto sostiene Antonio Fini nel brillante post Learning object e carrozze a motore . Cito una delle affermazioni più significative, una frase che sintetizza e chiarisce in un sol colpo una molteplicità di affermazioni che si vanno facendo al riguardo:

La rete, alla lunga,  implica apertura, è bene ricordarlo. E l’innovazione (quella vera) passa e passerà attraverso l’apertura, inutile opporsi. I cataloghi di learning object  chiusi e a pagamento, anche se di squisita fattura multimediale e sapiente progettazione didattica, non sono vera innovazione, almeno non più di quanto non lo siano state per l’evoluzione della mobilità umana le prime “carrozze a motore”, veicoli certamente legati molto più al passato che al futuro.

Bene, sono totalmente e assolutamente d’accordo!

Questo post di Antonio ha provocato su Facebook moltissime reazioni, un confronto a distanza molto vivace. Val sicuramente la pena di andare a leggerlo: http://www.facebook.com/antoniofini/posts/10150106438362265

Ma c’è ancora dell’altro che ha attirato la mia attenzione:

….mi chiedo sinceramente perché il denaro pubblico debba essere utilizzato per alimentare realtà private (grandi o piccole poco importa…) invece che essere impiegato per incentivare e supportare progetti di produzione di contenuti aperti all’interno del sistema scolastico stesso, ad esempio retribuendo direttamente (e in modo adeguato!) docenti disponibili alla redazione, alla verifica, alla revisione di contenuti aperti auto-prodotti.

Come tutti i docenti della scuola vado infatti riflettendo sulla dinamica della individuazione di docenti soprannumerari. E sulla successiva espulsione dal sistema scolastico. Io, questa faccenda, non la capisco. A meno che non si accetti per buona la filosofia e l’operato di giovani operatori della finanza appena usciti da qualche master più o meno prestigioso: più licenzi, più le azioni salgono, più grasso e ricco sarà il bonus di fine anno. NO, non lo capisco. La scuola NON è una società quotata in borsa. La fuoriuscita di personale docente non produce alcun bonus per nessuno. E allora? S’io fossi il grande imprenditore al governo saprei che le aziende sono basate sul prodotto.  Persino la Fiat, dopo anni di inseguimento dei mercati azionari, è ora ritornata a considerare se stessa in primo luogo come una fabbrica di automobili.  Per produrre ci vuole “know how”. Espellere persone “formate” e competenti mi sembra allora una sorta di pazzia distruttiva. La nota di Antonio mi rinforza quindi ulteriormente nella convinzione che una buona amministrazione della scuola potrebbe ormai prevedere l’utilizzazione di docenti in ruoli diversi da quelli della classica presenza in aula. La produzione di risorse “aperte” ( penso alle cosiddette OER) è solo una delle possibilità. La presenza della rete e delle tecnologie ci consentirebbe di offrire sia materiali che attività formative in modo esteso, poco costoso, fruibile da tutti, orientato alle competenze, perfettamente integrato col sistema del lifelong learning. In questo senso i docenti rimasti privi della classe non andrebbero più visti come privi di scopo, ma come risorsa preziosa da utilizzare per l’incremento e la diversificazione della produzione.