Olives for future

Capisco sempre meglio lo scetticismo di mio nonno: non riusciva proprio più ad interessarsi agli avvenimenti della cronaca e della politica né si poteva convincere che realmente stesse succedendo qualcosa. Pur commuovendosi profondamente per l’arte e per la storia tendeva sempre a guardare le faccende dei contemporanei con lente dissacrante al limite del disfattismo.

Questa consapevolezza accompagnava la mia riflessione, stamattina, mentre schiacciavo le olive appena raccolte dal mio albero: perchè oggi non sono andato alla manifestazione? Eppure la protezione dell’ambiente naturale, il cambiamento climatico sono le questioni che ritengo di gran lunga le più importanti, le questioni che dovrebbero essere messe al primo posto di qualsiasi agenda politica e in qualsiasi paese.

Nell’affrontarle una dose di scetticismo, non piccola, è d’obbligo: se pensiamo alla problematica in termini di ennesimo confronto tra natura e cultura il pessimismo diventerebbe micidiale. Continueremo a comportarci secondo natura, incrementando consumi e popolazione sino a quando l’ambiente stesso non ci fermerà. Disastrosamente. In questa ipotesi la stessa nostra cultura sarà strumento di squilibrio e distruzione.

Se invece riteniamo che la cultura globale sia molto migliore della somma delle culture dei singoli individui allora possiamo cullarci nella speranza di un nuovo umanesimo ambientalista che riuscirà a sconfiggere i mostri dell’economia e della finanza.

La faccenda è di una complessità soverchiante e nella mia personale posizione (età, mestiere, esperienze…) non ce la faccio proprio ad ascoltare i discorsi necessariamente semplificati che sentirei alla manifestazione. E poi nei cortei non riesco a non percepire una buona dose di esibizionismo. Divento asociale.

Poi però mi viene da pensare che quello che sto facendo è assolutamente in linea con lo spirito delle manifestazioni: trasformare in cibo un prodotto del giardino mi sembra più o meno il massimo del kilometro zero e della sostenibilità. Mi sento di stare facendo una cosa d’altri tempi..

… ma poi perchè altri?

Non sarebbe di questi tempi una iniziativa che vedrebbe ognuno di noi adottare un albero, un piccolo appezzamento di terreno, per curarlo, mantenerlo ed eventualmente raccoglierne i frutti? Se penso agli orti urbani mi par di capire che una fetta della popolazione già sia pronta. E allora penso anche agli agrumeti del Parco della Favorita, a Palermo, brillantemente sottratti ad una piccola mafia locale e colpevolmente lasciati nel più totale abbandono. Stiamo perdendo un verde storico che potremmo invece trasformare in manderineto urbano cui certamente molti di noi si dedicherebbero senza fini di lucro. E facendo un gran bel lavoro a favore dell’ambiente.

E allora mi viene da pensare che forse non tutto è perduto ma che tutto comunque vada cambiato, compreso il modo stesso di fare comunicazione e di impegnarsi nella azione. In questo senso mi sembra fantasticamente efficace l’opera di Klaus Littmann: The Unending Attraction of Nature.

Si, mi sa che da Greta e dagli alberi dobbiamo ricominciare…

Fingiamo

…viviamo spesso nella commedia della conoscenza. Sorvoliamo sulle cose, fingiamo sperando di sapere, ma in realtà non sappiamo. É una farsa che si inscena con se stessi, è la tragedia dell’insufficienza.

Da “Atlantide” di Carlo e Renzo Piano

Questa cosa mi ha sempre fatto pensare: il senso della insufficienza é proprio dell’essere umano, gli è congenito ed è generatore di molte ricerche e di molte credenze, non ultime quella di un dio.

Vittime inermi o coautori?

Trovo abbastanza fastidioso che si continui a parlare degli algoritmi motori delle proposte commerciali che incontriamo in rete come di una sorta di “Spectre” digitale contemporanea. Quando invece,  come ben messo recentemente in evidenza dagli ultimi lavori di Baricco, si tratta di un sistema del quale siamo consapevoli partecipanti e co-autori. Questo non significa che non ci sia tantissimo da migliorare o da evitare, c’è e bisogna impegnarsi verso una corretta crescita della “cultura digitale”. Così come vero è che bisogna stare attenti ai condizionamenti culturali, da affrontare, come sempre è stato, con lo sviluppo di una sempre maggiore capacità di “pensiero critico”. Ma evitiamo, per favore, di fare finta che adesso viviamo in un mondo che ci controlla più di quanto sia successo nelle epoche precedenti! Un esempio? Avete presente i ragazzi che andavano al fronte durante la prima guerra mondiale? Avevano 18 anni, o anche meno, e andavano, piangendo,  ben consapevoli che sarebbero morti al primo o al secondo assalto in uscita dalla trincea. Eppure andavano! Senza dubbi, andavano! Come era possibile, com’è stato possibile che abdicassero così completamente alla propria personale volontà di sopravvivenza? Succederebbe oggi la stessa cosa? Credo di no. Ne deduco che il condizionamento e il controllo dei comportamenti in quel periodo storico fossero più efficaci e più pervasivi di quelli attuali. Non dimentichiamolo.

Lettera aperta ad Ezio Mauro

Caro Ezio, perdonami la confidenza ma quanto tu oggi scrivi (Dove porta quel pullman https://rep.repubblica.it/pwa/editoriale/2019/03/21/news/dove_porta_quel_pullman-222193474/ ) mi è così vicino che vorrei veramente abbracciarti. Vorrei che tutti lo leggessero. Ma perché questo possa accadere bisognerebbe riscriverlo! No, non sto facendo una critica, assolutamente no. Piuttosto mi piacerebbe che potessero leggerlo e capirlo anche i miei alunni, che non sono né stupidi né bambini: sono studenti di un uno istituto tecnico industriale. Li vedo ogni giorno da 28 anni, so che non sarebbero in grado di farlo. Ma non sono lettori di Repubblica! Potresti obiettare… Vero, ma sono sicuro che anche tra questi lettori molti avranno avuto qualche difficoltà di interpretazione. Hai ragionissima quando affermi Serve uno sforzo cognitivo! Oggi a scuola ci sforziamo proprio in questa direzione: arricchire la vita dei nostri studenti con qualcosa che consenta loro di superare i limiti dell’istintivo e del comportamentista. La maggior parte di loro vuole, in buona fede, essere puramente addestrato a far qualcosa, come se la vita professionale potesse limitarsi a sapere quali sono i bottoni da pigiare (o da cliccare). Ci sforziamo di convincerli che capire è necessario e anche possibile. Per questo ti esorto a riscrivere il tuo magnifico articolo in un linguaggio che richieda una padronanza della lingua italiana a livello un pochino più elementare. Anche a costo di perdere qualche sfumatura e qualche raffinatezza. Sono sicuro che ne guadagneremmo tutti per una maggiore consapevolezza collettiva.

Letture di oggi

Riporto due piccoli brani, entrambi tratti da “Robinson” di oggi. Il primo estratto dall’incontro tra Renzo Piano e Alessandro Baricco:


Sì, ma ti manca sempre un pezzettino. È la condizione umana di chiunque provi a edificare, che sia un architetto, uno scrittore, un educatore, uno scienziato. Ti confronti, prima o poi, con il fatto che non sei il Padreterno. Le tue braccia non sono abbastanza lunghe per afferrare questa cosa che io chiamo bellezza ma che in realtà non è solo bellezza. È una sorta di araba fenice. Ti resta solo qualche piuma in mano, se ti va bene .

La seconda tratta da un libro di Dacia Maraini che raccoglie alcuni scritti di Fosco, suo padre, ancora inediti:

. . .
viene spontanea la domanda che Fosco fa a sé stesso: perché si rischia la morte per scalare una montagna? Perché ci si innamora di una vetta, di una terribile roccia che si staglia contro un cielo minaccioso? “Io posso rispondere solo a titolo personale, frugandomi dentro. Ci vedo due immense attrazioni. La prima è che la montagna mi fa da chiesa. Le vere chiese mi danno un’angosciosa sensazione di Dio in scatola. La montagna invece è Dio fresco. Dio libero. Dio diretto. La seconda attrazione è data dalla gente che s’incontra in montagna, dai compagni di cordata ai pastori, dalle grandi guide agli umili custodi dei rifugi .

Entrambe mi sembrano degne di qualche considerazione.

Ignoranza, frustrazione, salvinismo

L’idea che mi ha portato a questo titolo è presto sintetizzata così: il salvinismo, ovvero questo consenso apparentemente inspiegabile verso una persona di questo tipo, deriva dalla incapacità di gestire la frustrazione derivante dalla consapevolezza della nostra personale ignoranza. Spiego come mi sia venuta questa idea.

Stamattina, come sempre faccio quando ne ho la possibilità, leggo il giornale e mi imbatto nell’articolo di Maurizio Ferraris dal titolo “Il giorno che siamo diventati alienati e contenti” nel quale si cerca di superare l’inadeguatezza delle classiche entità economiche dell’analisi marxista con concetti più adeguati a ragionare del lavoro e dell’economia nell’epoca della trasformazione digitale (perdonate la brevità). Apprezzo l’articolo anche se capisco che riesco ad apprezzarlo solo parzialmente a causa delle mie ignoranze sia riguardo il pensiero marxista che le attuali dinamiche del lavoro e dell’economia.

Rimango con la curiosità di sapere qualcosa di più sull’autore, a cominciare dalla faccia che ha. Cerco quindi su YouTube qualche intervento (a latere: da quando fruisco di YouTube sul televisore ne apprezzo molto di più i contenuti…) trovando tanti interventi e ne avvio uno del Festival della Comunicazione. É recente e quindi il tema trattato ha molti punti in comune con quelli dell’articolo. Mi bastano i primi 18 minuti per capire che, per capire veramente, dovrei sapere un sacco di cose che non so. Vengo a sapere del significato della parola “taglia”, che la moneta ha un valore documentale, che questo tipo di processo risale addirittura al neolitico, insomma un sacco di cose che mi procurano più domande che risposte, che mi suscitano ancora più curiosità di quante nel soddisfino.

E qua spunta una certa frustrazione! Come fare a sapere tutte le cose che non so? So bene, per esperienza di tanti anni di esposizione al web, che non ci riuscirò, che andando avanti scoprirò ancora più cose da sapere e da capire. Faccio insomma esperienza della complessità. Faccio esperienza dei miei limiti.

E qua di fila subito due intuizioni: la prima è che non è vero che non esiste più la sinistra! Solo che non si identifica più con l’aderire al pensiero marxista prima e genericamente progressista dopo. Possiamo oggi piuttosto pensarla come costituita da quelle persone e quell’atteggiamento filosofico che accettano l’idea della complessità e che cercano di capirla e di descriverla.

La seconda è che se personalmente non riusciamo a trovare un senso allo sperdimento cognitivo, se la gestione della frustrazione ci fa venire l’ansia, se quest’ansia ci fa stare troppo male, allora siamo fortemente tentati dalla semplificazione eccessiva, dalla banalizzazione salviniana. Ricordiamoci che tra i motivi del successo del fascismo c’è l’esplicita dichiarazione di farla finita con le riflessioni e le teorizzazioni e piuttosto di preferire in modo acritico e incondizionato l’azione.

Dunque per uscire dall’impasse politica in cui versiamo non basta leggere più libri (ogni riferimento a Baricco è assolutamente voluto): bisogna andare di più dallo psicologo!

Colpevoli approssimazioni

Approssimare spesso è indispensabile per riuscire a descrivere fenomeni e sistemi complessi e l’uso dell’approssimazione fa parte delle pratiche di tutte le scienze pure e applicate. Ovviamente deve essere accettabile cioè non deve invalidare il ragionamento o il calcolo che stiamo eseguendo. Mi spiace quindi rilevare un esempio inaccettabile nel brano che segue:


Quando si fa una affermazione di questo tipo si confonde, anzi si identifica, il web con i social e si caratterizza l’intero web come ambiente nel quale il confronto e il dibattito siano impossibili. Si liquida in modo massimalista una delle più brillanti e utili invenzioni nella storia dell’umanità.

Accettabile?

Non mi convince

Critica all’intervento di Harari “Il nostro futuro”

Questo è il primo post dopo tanto, troppo tempo di abbandono di questo blog, ritrovatosi perfino offline per alcuni mesi. Tuttora è mancante di alcune sue parti. Adesso “è tornato” 😉

L’occasione per questo post l’ha fornita la sollecitazione di un amico riguardo l’intervento di Yuval Noah Harari nell’inserto “Robinson” di Repubblica del 13 Gennaio. L’avevo letto già e l’avevo classificato tra le cose mal fatte e poco interessanti (col mio amico ho usato un linguaggio più colorito..) ma, giusto per non essere rigido e presuntuoso , sono andato stasera a rileggerlo: il giudizio rimane confermato ma almeno adesso posso esprimere una critica un poco più puntuale.

Iniziamo dall’inizio

Il primo rigo si apre su “democrazia liberale”. Al quinto e successivi, senza cambiare argomento, il soggetto diventa “il liberalismo”. Ora, siccome io sono ignorante caprone non mi fido della sensazione che qualcosa non mi quadra e quindi vado a cercare il significato. Per democrazia liberale su wikipedia (ma anche altrove) leggo:

La democrazia liberale, o liberaldemocrazia, è una forma di Stato che si fonda sul principio della separazione dei poteri: legislativo, esecutivo e giudiziario.

Dunque stiamo parlando di una forma di stato: bene. Vado quindi a cercare “liberalismo” e Treccani mi restituisce

Movimento di pensiero e di azione politica che riconosce all’individuo un valore autonomo e tende a limitare l’azione statale in base a una costante distinzione di pubblico e di privato.

Movimento di pensiero? Alt, un momento, stiamo parlando di cose diverse o della stessa cosa? E qua si insinua, ovviamente, il dubbio che le parole e le argomentazioni siano usate un po’ alla leggera. E quando questa imprecisione viene da uno scrittore e influencer di fama internazionale mi viene il dubbio che possa nascondere qualche magagna e precisamente che l’argomentazione sia usata in modo malamente strumentale. Ma andiamo avanti:

A parte la spiegazione sul liberalismo che mi pare del tutto fuori registro, qui si comincia a parlare del libero arbitrio e su questo concetto e sul successivo che introdurremo tra poco si snocciola una sorta di ping-pong che dovrebbe dimostrare la tesi dell’autore. Mi sono preso la briga di contare, anzi di far contare a word quante volte ricorre “libero arbitrio”: sono 11 ricorrenze in un testo di appena sei paginette. Tanta fatica per dimostrare l’inadeguatezza del concetto relativamente alla capacità umana di fare delle scelte consapevoli… A mio parere non valeva la pena, si tratta di qualcosa di molto noto, il campo è di tipo sociologico e psicologico e credo si possano trovare diversi trattati in merito. E’ da notare inoltre come incongruenza significativa che l’autore usi un concetto filosofico e una argomentazione filosofica quando poi, più avanti nel testo, si lascia andare alla seguente affermazione: i filosofi sono persone molto pazienti — in grado di dibattere senza costrutto su qualunque cosa per tremila anniSenza costrutto… bah un po’ troppo sbrigativo, anche non rispettoso direi.

L’altro concetto, l’altra parola che ricorre come un tormentone è hackerare il sistema operativo umano che ricorre con poche varianti per ben 16 volte. Si tratta del concetto basilare del testo e l’autore vorrebbe dimostrare che come esseri umani siamo hackerabili grazie ai dati che lasciamo in rete e che lo diventeremo ancora di più grazie ai sensori biometrici:

Al momento gli hacker si affidano all’analisi di segnali esterni: i prodotti che comprate, i posti che visitate, le parole che cercate online. Ma nel giro di pochi anni i sensori biometrici potrebbero fornire agli hacker un accesso diretto alla vostra realtà interiore, nonché osservare quel che accade nel vostro cuore; non il cuore metaforico tanto amato dalle fantasie liberali, bensì il muscolo- pompa che regola la vostra pressione sanguigna e gran parte della vostra attività cerebrale. A quel punto gli hacker potrebbero correlare il vostro ritmo cardiaco con i dati della vostra carta di credito, e la vostra pressione sanguigna con la vostra cronologia delle ricerche. Che cos’avrebbero fatto, il Kgb e l’Inquisizione, potendo disporre di braccialetti biometrici che sorvegliano costantemente singoli stati d’animo e preferenze? Per nostra sfortuna, è assai probabile che lo scopriremo presto.

Fantastico! Qua entriamo pienamente in un fantasy distopico da serie televisiva! Qua, ancora una volta, si usa la paura e la suggestione al posto della dimostrazione e della argomentazione. Non mi pare corretto.

Bah… potrei andare avanti ancora per molto nel fare le pulci a questo testo che mi sembra non degno di apparire come esempio di dibattito su questi temi che pure sono reali e interessanti. Il mio consiglio è quello di andare a leggere l’intervento di Baricco di qualche giorno fa “E ora le élite si mettano in gioco” e il grappolo di interventi successivi che ne sono scaturiti: ben altro respiro!

Tornando ad Harari possiamo dire che la conclusione è ragionevole e condivisibile

È giusto salvaguardare la democrazia liberale, non solo perché si è dimostrata la migliore forma di governo rispetto a qualunque alternativa, ma anche perché pone il minor numero di limitazioni al dibattito sul futuro dell’umanità. Al tempo stesso, però, è necessario mettere in discussione tutti i presupposti tradizionali del liberalismo e inventarsi un progetto politico nuovo, che sia più in sintonia con le realtà scientifiche e la potenza tecnologica del Ventunesimo secolo.

Ci si poteva arrivare più onestamente!

Parlamentare ultràs? Non è divertente.

Mi è molto dispiaciuto sentire stamattina alcune affermazioni di Antonio Polito su “Prima Pagina” di Radio3. Mettendo giustamente l’accento sulla prima volta di un parlamentare proveniente dalle tifoserie e tracciandone brevemente alcune significative note biografiche per lo più improntate ad una certa pierineria, Polito conclude che si tratta di un parlamentare da seguire perchè chissà quante ne combinerà, intendendo con questo riferirsi ad iniziative e interventi irrituali e kitch. Polito utilizza una certa ironia e un certo sarcasmo che, a mio parere, non lo salvano da un giudizio di inopportunità della affermazione. Avrei capito se si trattasse di un cabarettista ma di un parlamentare si parla in modo diverso e da un parlamentare, qualsiasi sia la sua provenienza, ci si deve aspettare un comportamento corretto e sempre improntato allo spirito critico, al servizio della comunità, alla collaborazione.

Quanto detto fa parte di una serie di riflessioni che mi trovo spesso a fare sul ruolo della stampa e dell’informazione tutta e sul peso che certe modalità giornalistiche hanno sulla formazione dell’opinione pubblica e sulla cultura di un intero paese. Le modalità con le quali Polito si è espresso, infatti, rischiano inevitabilmente di legittimare atteggiamenti e comportamenti che saranno certamente di danno allo svolgimento delle attività parlamentari. Al più saranno buone per consentire la realizzazione di qualche servizio “di colore” il cui effetto sarà probabilmente ulteriormente diseducativo.

Certamente non può sfuggire ad un giornalista della levatura di Polito che il sarcasmo e l’ironia richiedono capacità di interpretazione che appartengono a determinate culture e non ad altre: certamente gli ormai numerosi lavoratori stranieri (non necessariamente extracomunitari) non riescono ad apprezzare, se non quei pochissimi che ormai parlano l’italiano come lingua madre,  le sfumature linguistiche adottate a proposito delle attese boutade di uno arrivato in parlamento grazie alla popolarità raggiunta con i comportamenti da curva sud. Ma anche tra quanti si sono formati nel ventennio berlusconiano troveremo molti privi degli strumenti culturali necessari e, purtroppo, pronti ad accogliere le annunciate intemperanze come qualcosa di divertente.

E’ questo che vogliamo?

 

 

Si arriva a un punto…

… della vita nel quale diventa relativamente facile riconoscere nelle biografie altrui dei percorsi che avrebbero potuto essere i nostri. Non senza qualche rimpianto leggo un intervista con Tony Bynum, fotografo ambientalista basato nel Montana, apprendendo del suo lavoro fotografico così strettamente intrecciato con le campagne ambientaliste e l’amore per “l’outdoor” e la natura incontaminata. E notando come un periodo della mia vita sia stato piuttosto simile (ero ancora studente universitario o appena laureato). Avrei molto volentieri fatto il fotografo per “Airone” (prima maniera però, taglio esclusivamente naturalistico), per un periodo è stato il mio sogno ma, forse perché non mi sono dato mai i “permessi giusti”, forse perché mi sembrava un qualcosa al di fuori della mia portata, non l’ho mai inseguito questo sogno, ho dato la priorità a stare coi piedi per terra. Vabbè… ho vissuto lo stesso, non mi pento di niente…ma qualche pensierino in questi casi fa capolino.