A cosa serve la scuola?

Ho appena finito di leggere qualcosa che sta avendo, almeno a giudicare dai commenti e dai tweets, notevole successo anche in Italia. Si tratta del testo (rilasciato come Oer) “A cosa serve la scuola? Non rubate i sogni” di Seth Godin. Annoto qui di seguito alcune mie insignificanti riflessioni in merito.

Il testo si riferisce esplicitamente alla scuola americana di ogni ordine e grado, una realtà quindi sensibilmente diversa da quella della scuola italiana. Tuttavia, trattandosi di analoghi processi formativi, e con obiettivi analoghi, le parti relative agli obiettivi e ai metodi generali sono valide anche per il nostro sistema scolastico.

Le affermazioni di principio di grande respiro sono certamente condivisibili, ad esempio:

Compiti a casa durante il giorno, lezioni di sera.
Libri aperti, appunti aperti, sempre.
Accesso a qualsiasi corso, in qualsiasi parte del mondo.
Insegnamenti precisi e focalizzati invece di insegnamenti generalizzati e per la massa. La fine dei test a risposta multipla.
L’esperienza invece di un voto ad una verifica come misura del raggiungimento di un obiettivo.
La fine dell’accondiscendenza come risultato finale.
Cooperazione invece di isolamento.
Sviluppo di studenti, insegnanti e idee marginali.
Trasformazione del ruolo dell’insegnante.
Apprendimento per tutta la vita, accesso anticipato al mondo del lavoro. La morte dei college quasi famosi.

Ora è più facile che mai aprire una scuola, portare nuove tecnologie nella scuola, e cambiare il modo in cui insegniamo. Ma se tutto ciò che facciamo con questi strumenti è insegnare accondiscendenza e consumismo, sarà tutto quello che riceveremo.
La scuola può e deve fare di più che preparare gli operai di domani.

Oppure:

Ci serve che la scuola produca qualcosa di differente …..
No, non ci serve che creiate conformità.
No, non ci serve che insegniate a memorizzare le cose.
E no, non ci serve che insegniate agli studenti ad abbracciare lo status quo.

Ci comportiamo come se ci fossero solo due passi nella scuola:
-Far sì che i bambini si comportino bene.
-Riempirli di fatti e tecniche.
Apparentemente, se riesci a immagazzinare un po’ di queste due cose, abbastanza condotta e abbastanza tecniche, allora improvvisamente, come se arrivasse la primavera per un prato verde, la passione arriva.
Non la sto vedendo.
Penso che la passione spesso nasca dal successo. Fai qualcosa per bene, impara da quello che hai fatto, e forse ti piacerà farlo di nuovo. Risolvi un problema interessante e ti appassionerai.
Ma se ti servono dieci anni per capire bene la matematica, allora è troppo tempo per aspettare che la passione arrivi.

…non vorrei vivere in un mondo privo di educazione. Penso veramente che l’educazione renda ogni essere umano migliore, elevi la nostra cultura e la nostra economia, e crei la base che guida la scienza che conduce al nostro benessere.

No. Semplicemente mi chiedo quando abbiamo deciso che lo scopo della scuola fosse quello di stipare il più possibile una marea di dati/concetti di base/fatti nella testa di ogni studente.

Il fatto che ciascuno di noi possa formare una rete (di persone, di risorse dati, di esperienze) che ci renderà più intelligenti o più stupidi è totalmente nuovo e importante.
Cosa sta facendo la tipica scuola per insegnare agli studenti ad essere bravi nel fare questa cosa?

La scuola, allora, non deve fermarsi a fornire informazioni, deve anche spronare i bambini a volerle trovare.

Non ha importanza se tu sei capace di fare della matematica di alto livello o di analizzare memi con il passare del tempo. Se non sei capace o non hai voglia di costruire ponti tra il mondo reale e quei simboli, non potrai avere un impatto nel mondo.

Pensate a quanto semplice (e utile) sarebbe diventare migliori a:

-fare una presentazione
-gestire una negoziazione
-scrivere un pezzo importante per il marketing
-stringere le mani
-vestirsi per un incontro
-fare l’amore
-analizzare statistiche
-assumere persone
-trattare con persone autoritarie -sapersi difendere con le parole -gestire situazioni emotivamente difficili.

E nonostante questo…la maggior parte di noi improvvisa. Facciamo gli stessi errori di quelli che sono venuti prima di noi e scappiamo dal duro (ma incredibilmente utile) lavoro di diventare migliori nelle cose che contano.

Sono, queste, affermazioni ispirate a convinzioni condivisibili: che la scuola debba superare la concenzione “antica” di preparare il lavoratore (dell’era industriale), che la cosa migliore, per lo sviluppo della persona, è suscitare passione, gusto per l’apprendimento, capacità di iniziativa e di risolvere autonomamente problemi della vita reale.

Sin qui tutto ok. Il testo però mostra anche dei limiti evidenti.
Intanto c’è qua e là un marcato riferimento allo sviluppo della leadership, idea che sa molto di mentalità americana di epoca di prima industrializzazione. Le convinzioni più recenti (credo condivise dal medesimo autore in altri testi nei quali si tratta delle relazioni di rete) propongono piuttosto un sistema fatto di relazioni tra pari in rete, di intelligenza collettiva, di saperi condivisi.

Manca qualsiasi riferimento metodologico, sostituito dalla necessità di dover suscitare le passioni.

Manca un vero riferimento alla scelta dei saperi, sostituita da vaghe invocazioni ad attitudini di tipo pratico.

In qualche momento si lascia andare ad uno psicologismo esagerato:

L’atto di imparare è spaventoso per molti perché si può fallire in ogni punto del percorso.
Potresti fallire nel capire la nozione successiva o potresti fallire nella prossima verifica. Allora, emotivamente, è più facile rinunciare, collegarsi o presentarsi perché devi farlo, perché in questo modo il fallimento non dipende da te; è colpa del sistema.

Il testo è centrato su come la scuola non dovrebbe essere, su questo ci si dilunga (anche giustamente) parecchio. Ma sl fare fare in modo che la scuola cambi in pratica non viene detto praticamente nulla.

Ma soprattutto credo che il limite più grosso risieda in un approccio da evangelizzatore da strapazzo: grande enfasi sul male (analizzato nel dettaglio) e sul pericolo, grande emozione sulla luminosa perfezione di un’alternativa (lasciata nel vago) realizzabile. Il rischio è che l’intera operazione difetti di una certa e completa onestà intellettuale.

Autore: Carlo Columba

Nato (1956), cresciuto e vissuto a Palermo ma certamente non "palermitano doc", piuttosto mi sento pronto per un trasferimento in svizzera… Insegno elettronica negli istituti tecnici industriali ma provengo da esperienze di progettazione e produzione nel campo della multimedialità sequenziale e interattiva. Amante della natura e del silenzio da sempre coltivo la fotografia come personale e indispensabile autoterapia.

2 pensieri riguardo “A cosa serve la scuola?”

  1. Gent. Prof. Columba, mi sono trovato anch’io a leggere il libro da Lei citato. Certo difetta di “scientificità” e sollecita verso gli “spiriti” liberi. Ma la scuola italiana, così com’è, difetta e basta. Ci sono meteore, come Lei, che svolgono compiti onorevoli, dignitosi, tesi ad una reale condivisione di saperi in nebulose impalpabili di indottrinamenti, rigori carcerari e valutazioni cliniche. Non so come Lei partecipi, con quale animo e vocazione, ai Consigli di classe, ai Dipartimenti, ai Collegi docenti e chi ne ha ne metta. Io non li capisco più, parlano lingue occitane, esperanti de noantri, animati da passioni sterili per sigle e cifre, mentre ai ragazzi che desiderano “stare nel mondo” si danno in pasto aulici versi del romanticismo italiano o sequenze di funzioni matematiche che conducono a 1, ma solo dopo una tortuosa perdita di tempo e di senso. La mia lettura di quel testo la sto calando su altre disponibilità, altre letture e altri riferimenti che, nostro malgrado, siamo capaci di riorganizzare per una scuola dei saperi che stanno nel tempo e nel mondo. Godin scrive in premessa: “Questo manifesto non è una ricetta su come cambiare l’educazione. Non è un manuale. E’ una serie di provocazioni, le quali potrebbero amplificarsi e portare ad una conversazione sul tema.” Non è un profeta, ma un osservatore. Penso che non scriva stronzate, altresì che orienti lo sguardo verso un orizzonte a cui non guarda la maggior parte dei docenti italiani “abituati” a lavorare come impiegati di concetto (senza nemmeno avere il concetto di impiego). Guardi negli occhi i suoi allievi quando li sfida a ragionare, e provi a guardare gli stessi occhi spersi, o affondati nel vuoto, mentre suoi colleghi li tempestano di compiti a casa o li rimproverano perché non si sono alzati all’ingresso del prof. Ci sarà un limite alla scuola che produce operai? Cordiali saluti.

  2. Gentile Carlo,

    grazie per questo post e per aver letto il manifesto.
    Sono post come questi che smuovono qualcosa e creano una discussione costruttiva.

    Uno puo’ focalizzarsi su particolari del libro certo…la nostra opinione e’ che la scuola cosi’ come e’ adesso non sia piu’ al passo con i tempi, e in un modo o in un altro, bisogna cambiare questa situazione.

    E poi perche’ no…se la scuola producesse piu’ leader (e per leader intendiamo persone che siano in grado di cambiare lo status quo delle cose) ben venga!

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